Raffaele Fiengo
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Un Paese fermo e l’opinione pubblica che non c’è
Raffaele Fiengo
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di Raffaele Fiengo
L’Italia è un Paese fermo per il giornalismo che non c’è. Autorevoli studiosi e testimoni hanno individuato nella mancanza di autonomia del giornalismo la debolezza, forse addirittura l’assenza dell’opinione pubblica.
Una caduta conseguente nell’informazione schierata alimenta così le due Italie contrapposte. Una libertà di stampa manchevole nella sua missione principale che sta nel mettere i cittadini in condizione di sapere per decidere. Nel marzo 2009, nelle aule dell’università di Urbino, ho discusso questi temi con altri studiosi durante cinque tornate di dibattito con il Progetto Einaudi-Albertini per l’indipendenza dei media. Giorgio Napolitano invocò la responsabilità dei giornalisti nel raccontare compiutamente la realtà e Carlo Azeglio Ciampi individuò, con un termine singolare, il primo antidoto per sventare i pericoli ai quali l’indipendenza è esposta: la “resilienza” della coscienza di chi nell’informazione opera. Resilienza è “la capacità di un materiale di resistere ad urti improvvisi senza spezzarsi” (Zingarelli). Più ancora della “schiena dritta” che, dal Quirinale Ciampi aveva chiesto ai giornalisti. Tre settimane dopo, 308 persone hanno perso la vita nel terremoto dell’Aquila. Tra questi i ragazzi della Casa dello studente: non sapevano, nemmeno loro, che dormivano in uno stabile che mancava addirittura di un pilastro portante. Un terremoto che a San Francisco o in Giappone avrebbe al massimo ucciso qualcuno per infarto qui ha fatto una strage. I cittadini non sapevano, non conoscevano gli atti che li riguardava in questioni vitali. Non avevano conoscenza di nessuno degli atti pubblici che gli potevano salvare la vita. Purtroppo la schiena dritta e la resilienza non bastano. Nelle democrazie, dove la libertà dà ampi spazi anche a speculatori senza scrupoli, non si può non avere il pieno dispiegamento dell’informazione, oltre che, ovviamente, una magistratura indipendente per punirli quando sono conniventi con la politica.
Il ‘Foia’, una legge sulla libertà d’informare i cittadini
C’è un caso da manuale che dovrebbe insegnarci qualcosa: la pubblicazione dei documenti sulle torture in Iraq che Obama ha reso pubblici nel 2009. In seguito all’azione legale intentata dall’ACLU, l’ American Civil Liberties Union, attraverso il Freedom of Information Act (il Foia) che permette a ogni cittadino, americano o straniero, di ottenere abbastanza velocemente gli atti della pubblica amministrazione pagando solo le spese per le fotocopie. (I giornalisti e le università non devono pagare nemmeno quelle). Il Foia è nato in Svezia e Finlandia dopo la Seconda guerra mondiale, è stato introdotto negli Stati Uniti nel 1966 e ora è diffuso in oltre settanta Paesi di tutto il mondo, comprese l’India e l’Islanda, che hanno in vigore una delle versioni più ampie. In Italia il Foia non c’è. Permane in sostanza, nel nostro Paese, la vecchia regola restrittiva, in base alla quale può chiedere un atto amministrativo soltanto chi ha un “interesse legittimo” ad averlo. Un diritto di accesso ai documenti pubblici venti anni fa è stato introdotto nel nostro ordinamento. Ma questa famosa legge 241 del 1990 è pensata per il singolo alle prese, per i casi suoi, con la pubblica amministrazione. Non nasce come diritto della comunità dei cittadini a sapere. E una serie di leggine successive ha chiuso totalmente il discorso. Una eccezione importante in verità ci sarebbe: in materia ambientale, dal 25 giugno 1998, una convenzione internazionale firmata ad Aarhus in Danimarca anche dall’Italia, dà a tutti il diritto di accedere alle informazioni che riguardano l’ambiente. Norma poco conosciuta e poco praticata dai giornalisti. La ragione c’è: è previsto il termine di un mese (allungabile dagli enti a due mesi per il volume e la complessità dei documenti richiesti) entro il quale devono essere rilasciate le carte. Questo termine è abbastanza paralizzante per gli usi giornalistici: pensiamo agli atti relativi ai morti di Messina travolti dal fango. In realtà la situazione italiana è pessima. Non solo sui grandi drammi, le stragi e il segreto di Stato. (Su questo terreno un disegno di legge del 2006 è rimasto lettera morta).
Gli atti della Pubblica Amministrazione devono essere accessibili
Da una parte la pubblica amministrazione è, quasi per natura, poco trasparente e non ottempera a questi obblighi nemmeno quando ci sono. Provate a visionare o a farvi dare qualsiasi documento di qualsiasi ufficio pubblico, dai ministeri ai Comuni, alle Province, alle Regioni. E poi le scuole, le asl. Non parliamo di polizia, carabinieri, guardia di finanza. Se faticosamente si stabilisce che gli uffici stampa pubblici debbono essere coperti da giornalisti neppure allora ciò si traduce immediatamente in un lavoro volto alla conoscenza da parte dei cittadini. La vocazione al ruolo di portavoce è assai forte. È un dato di fatto. Non una opinione. Molti anni fa, dovevo fare per un settimanale una inchiesta sui treni sporchi. Chiesi invano di avere una copia dei capitolati di appalto con gli specifici obblighi delle imprese di pulizia. Un muro, anche se erano ovviamente strapubblici. Finii per prenderne una copia da un cassetto della Stazione Termini. Scoprii così che ogni treno doveva essere pulito da cima a fondo, compresa la lucidatura degli ottoni, prima di ogni partenza. Nella realtà, riscontrata con i miei occhi, le cose funzionavano così: un signore, all’uscita della stazione accanto ai binari, contava le vetture dei treni che passavano in partenza e tutti venivano dati per puliti e lucidati con relativo pagamento milionario. (Questa storia, ahimé, finì miseramente perché l’inchiesta di dodici pagine fu ridotta a tre in tipografia per intervento del proprietario-direttore su richiesta delle Ferrovie). Non si tratta di vicende solo del passato. Recentemente su un vagone letto di prima classe in arrivo a Milano da Parigi sono state trovate molte zecche. Oggi sarebbe possibile avere i capitolati di appalto per le pulizie dei treni. Formalmente forse sì. In realtà no.
Il giornalismo italiano nasce aristocratico ma deve essere libero e trasparente
Il giornalismo italiano nasce aristocratico, molto di scrittura e opinione. Poco di fatti, anche se nel suo primo numero (il 5-6 marzo 1876) il Corriere della Sera scriveva “un fatto è un fatto e una parola non è che una parola”. La ritrovata libertà dopo il fascismo, con le garanzie costituzionali dell’articolo 21, hanno dovuto fare i conti con strutture proprietarie dei media poco favorevoli allo sviluppo dell’impresa giornalistica. Tuttora le proprietà nella carta stampata sono quasi tutte industriali, finanziarie, bancarie. La televisione pubblica risponde principalmente al governo e ai partiti. Le stagioni delle inchieste sono state poche. La capacità di spiegare e mettere ordine nel sovraccarico delle notizie è scarsa. Le eccezioni rare. Con la grande trasformazione tecnologica e lo smarrimento di stampa e tv davanti a internet, il giornalismo annaspa. Nel campo di forze dei media pesa di più la pubblicità, anche se cala di brutto per la crisi economica. Il marketing aggressivo occupa quel che rimane per mettere qualche pezza alle imprese. Eppure il giornalismo ci salverà, sempre che riusciamo a praticarlo. Per questo l’idea di introdurre con urgenza il Freedom of Information Act, il Foia, in Italia può essere un motore formidabile, come Google.