Michele Urbano
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Il giornalismo sta cambiando pelle...
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Il 12 dicembre il consiglio nazionale dell’Ordine ha approvato il nuovo codice deontologico. Un testo che riordina la materia, rendendo più facile la lettura e l’interpretazione dei principi base della correttezza informativa, ossia della deontologia giornalistica.
Mi chiedo, però, se l’impegnativo lavoro dei consiglieri che hanno contribuito a elaborare il nuovo testo sarà compensato come meriterebbe. Purtroppo, temo di no,
Dopo averlo letto, la domanda che mi faccio è la stessa che mi facevo vent’anni fa e forse più (quella più famosa, la carta di Treviso, è del 1994) quando le carte deontologiche suscitavano parecchio interesse tra i colleghi: chi vigilerà e con quali strumenti su quei sacrosanti principi? Interrogativo che può essere riproposto in termini più generali: esiste una coscienza condivisa - e diffusa - su ciò che nella nostra professione si può fare o non fare? A questa domanda oggi ne aggiungerei un’altra, forse ancora più drammatica: a chi si rivolge l’Ordine?
Penso, infatti, che siano molte le ragioni che spiegano perché una coscienza condivisa sulle regole da noi sia diventata realtà fragile. Cominciamo col dire che la storia del giornalismo italiano è una storia, non sempre nobile, di giornalismo partigiano, dove l’editore, esplicitamente o no, dell’informazione si serviva per raggiungere altri obiettivi.
A questo va legata una peculiarità della nostra professione. Il giornalismo non può prescindere dal filtro esercitato da chi lo pratica. I suoi occhi, la sua cultura, il suo status sociale, le sue opinioni politiche, inevitabilmente – ma si potrebbe dire naturalmente - incidono sulla qualità della notizia e anche sul suo valore, ossia sull’importanza che si assegna alla notizia stessa.
Nel giornalismo anglosassone si è cercato di attenuare il ruolo del giornalista con l’obbligo “scolastico” di separare i fatti dalle opinioni e l’obbligo di citare sempre la fonte (e infatti – ricordo – nel 1972 il caso Watergate e la sua fonte coperta suscitarono non poche discussioni tra i reporter americani).
Ma, appunto, gli editori puri fanno parte della storia Usa, non di quella italiana o dell’Europa continentale.
Dunque, in un paese dove il modello prevalente è sempre stata l’informazione partigiana, non deve sorprendere che anche la deontologia venga letta e vissuta come partigiana.
Come andava l’amministrazione della giustizia deontologica prima dell’avvento (2011) dei consigli di disciplina? A quel che ricordo senza infamia e senza gloria. Negli ordini regionali più piccoli scattavano una serie di meccanismi autoprotettivi (a volte semplicemente amicali) che di fatto la sterilizzavano; in quelli più grandi, invece, c’era il problema delle liste e dei giornali di riferimento. Chi ricorda il caso Farina? Insomma, la deontologia terreno di battaglia politica. Va aggiunto, per la cronaca storica, che la situazione non è cambiata granché con l’introduzione dei consigli di disciplina.
E forse anche questo dovrebbe farci riflettere: se anche cambiando gli strumenti la situazione non migliora, forse il problema, semplicemente, non è risolvibile con risposte organizzative,
Forse dobbiamo farci coraggio e cominciare a chiederci chi è il giornalista oggi, che lavoro fa, quali sono le sue competenze, che studi deve fare per diventarlo, quali sono i suoi doveri, da chi deve essere difeso, da chi deve essere giudicato. E magari chiederci anche i condizionamenti che il web esercita su chi ricerca notizie di interesse pubblico. Appunto, definire chi è il giornalista oggi.
D’altra parte, è evidente che la rivoluzione tecnologica ha profondamente modificato l’industria dell’informazione non solo negli strumenti produttivi – passando dal piombo a internet, dall’analogico al digitale -: ha anche profondamente modificato le tecniche di lavorazione e inevitabilmente i ruoli, e con essi, aggiungo, le competenze tecniche e le sensibilità professionali.
Ruoli che peraltro si sono moltiplicati acquisendo contenuti sempre più specialistici. Faccio notare solo due cose: 1) molte figure giornalistiche di oggi non hanno più niente a che fare con il giornalista del Novecento, ergo anche i principi deontologici richiederebbero una messa a punto, se non altro per far rientrare nella stessa “casa” molte figure che oggi vivono in una specie di limbo che non fa bene né a loro, né alla qualità dell’informazione. Tanto più, ricordo, che le sanzioni deontologiche, in Italia, si applicano ai membri che aderiscono ad una stessa comunità professionale (l’Ordine). Ma se il soggetto della presunta violazione non fa parte di quella comunità (in altre parole non è iscritto all’Ordine) che succede? La risposta è una sola: la giustizia ordinaria. Che ha ben altro a cui pensare.
Insomma, non dimentichiamo che la rivoluzione web ha sicuramente lasciato macerie, ma al loro posto sta costruendo un nuovo mondo, dove l’informazione è un sistema integrato che sarà sempre più integrato. Il matrimonio sotto l’ombrello di internet tra Radio, Tv, telefonia, sarà sempre più stretto e darà vita a nuove professionalità. Non è detto che vorranno chiamarsi giornalisti. Ma come vorranno chiamarsi dipende anche da noi e dall’identikit che – assieme a loro - sapremo costruire del giornalista di domani. Operazione difficile, che non abbiamo ancora iniziato.