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I NOSTRI EDITORIALI

Qui trovate la nostra storia, la nostra carta di identità, i nostri impegni programmatici e le biografie dei nostri delegati.

Ai nativi digitali serve ancora la politica?

Ai nativi digitali serve ancora la politica?

di Piero Scaramucci *

E’ un anniversario. 25 anni fa in ottobre preparavamo il volantino di convocazione, in novembre la prima riunione a Fiesole.

UN QUARTO DI SECOLO FA! Mi ha fatto impressione, riguardando le carte, che alcune questioni cruciali che indicavamo allora siano assai simili a quelle di oggi: la pubblicità che guida le scelte editoriali, il precariato, il controllo politico sui media, le clientele, i tentativi di delegittimazione del sindacato, il bisogno di etica.

In effetti tra i due periodi ci sono delle analogie. Il periodo craxiano interpretava una prima fase del disegno della P2, si andava verso una deregolazione del sistema di garanzie, si lavorava alla  delegittimazione o all’asservimento dei sindacati, al controllo dell’informazione, alla conquista della RAI, alla creazione di un oligopolio televisivo, al consolidamento dei meccanismi di clientela.

Il periodo berlusconiano è sulla stessa falsariga, Gelli dice che B. è il miglior interprete del suo progetto politico. Il sistema di garanzie costituzionali è attaccato frontalmente (magistratura, diritti del lavoratori, equità fiscale, libertà di informazione…), il precariato è incoraggiato e la contrattazione collettiva scoraggiata, i sindacati sono attaccati e infine divisi (persino la CISL che ha una storia non certo marginale, viene trascinata a servire il despota, addirittura nel suo periodo più squallido), il duopolio TV diventa monopolio, il denaro pubblico è sfacciatamente utilizzato per clientele anche mafiose (come il ponte sullo Stretto), la fisionomia del sistema muta progressivamente, i partiti quasi non ci sono più, alcuni sono scomparsi, altri sopravvivono a fatica, altri ancora sono delle aggregazioni d’affari.

Il collasso del nostro sistema politico comincia, però, molto molto prima. Potremmo datarne l’inizio con la fine degli anni ’70, con l’uccisione di Aldo Moro: quello fu, contemporaneamente, (come peraltro Moro aveva previsto) l’inizio dello sgretolamento della DC e l’inizio del declino del PCI. Sono processi lunghi di cui si apprezza la curva coerente solo a distanza di anni.

La DC finirà per sciogliersi nel partito azienda di Berlusconi. Il Pci comincerà la vorticosa serie di scioglimenti e rifondazioni, cambiamenti di nome e fusioni.

Il due partiti, ma man mano anche le altre forze politiche, rappresenteranno sempre meno progetti politici, visioni del mondo, linee economiche e sociali in grado di interpretare i bisogni delle persone. Il centrodestra berlusconiano conserverà più di altri un potere di attrazione, ma essendo fondato su clientele e occupazione di posti di potere deluderà sempre di più i poteri che vi avevano allocato i propri interessi.

Ma al di là della squallida vicenda italiana il potere politico e con esso i partiti, un po’ ovunque in occidente, si è trovato in una congiuntura sfavorevole, una congiuntura mondiale che in questo momento è vistosamente chiara, nella quale il comando sembra essere esercitato su scala planetaria più dal potere finanziario che da quello politico.

E’ il potere finanziario che indica le scelte economiche e sociali, precarizzazione, dislocamento del denaro dai cittadini al comparto finanziario, costituzione di profitti che il capitale manifatturiero, perlomeno in Occidente, non è in grado di realizzare. E contemporaneamente il capitale finanziario attacca – ormai alla luce del sole – il potere politico, l’Unione Europea a cominciare da Grecia, Spagna, Portogallo, Italia, e ultimamente la Francia, e attacca persino gli Stati Uniti di Obama.

Questi cenni per richiamare il quadro nel quale ci muoviamo. Un quadro diverso dal passato recente e da tutti i modelli precedenti (Anche se – specie in Italia – richiama un modello medioevale, valvassori, vassalli, signori, ciascuno munge i sottoposti e si prostra a chi gli sta sopra fino a vescovi, duchi, principi, sovrani, imperatori, papi, ma nessuno sa bene dove risieda il potere ultimo, forse nell’alto dei cieli, ma di certi i nebulosi ordini che vengono da sopra determinano le regole, indiscutibili e inappellabili).

Nella crisi credo che il sistema politico italiano sia tra i più fragili, si presenta sgangherato anche per la contaminazione dell’agenda dettata dal ventennio berlusconiano attorno alla quale ci si è avvitati.  Il sistema politico italiano appare vecchio e sclerotico, non in grado di fronteggiare alcunché. Non ne dimostra la consapevolezza, né mostra strumenti politici e culturali adeguati, non ha la forza e soprattutto mi pare non abbia il consenso. Neppure sul piano numerico.

Attualmente i due maggiori partiti, PD e Pdl, rappresentano ciascuno circa ¼  dell’elettorato attivo. Cioè poco più del 15% degli aventi diritto al voto. Quindici/diciotto persone su 100.

I modelli di rappresentanza che conosciamo, i meccanismi di delega costituiti sono insufficienti e inadeguati al periodo nuovo e complicato. Non sono scomparsi, questi modelli, ma non catalizzano più, non riescono a portare a sintesi bisogni e domande, non sono in grado di tradurli in progetti.

Il progetto berlusconiano ha funzionato non per la visione politica che a B. manca del tutto come appare lampante specie negli ultimi mesi (anzi pare piuttosto che B. sia stato messo lì a coprire progetti di altri, scelto per la sua sfrontata inconsapevolezza e la spregiudicata capacità di reclutamento). Ha funzionato finché c’era ciccia da spartire tra i clienti, finché l’immaginario televisivo-velinistico lasciava intravvedere possibilità e sogni. Finché il berlusconismo diffuso rappresentava un modello promettente e molti non vedevano che gli scenari erano di cartapesta. Con il suo declino anche l’immaginario che lo condiva si va sfaldando.

E’ vero che lascia dietro di sé una devastazione sociale non facilmente sanabile, qualche leva di rincretiniti da un’istruzione sfasciata, una comunicazione in forte misura omologata e servile, un tessuto economico agonizzante, modelli di vita grotteschi, la demolizione del concetto di patto sociale. E si lascia dietro pletore di faccendieri ben installati e squadre di  arroganti già in caccia di un modello politico più presentabile.

Ma è anche vero che – come sempre succede in natura –  si è andata delineando una serie di anticorpi.

Il pensiero antagonista (negli USA, prima ancora che in Europa e in Italia) dalla metà degli anni ’90, ha cominciato ad abbandonare le forme schematiche di derivazione ideologica, ha cominciato a coltivare progetti legati a modelli di vita concreti e più pragmatici.

Il nuovo antagonismo è formato da soggetti e ambiti anche molto diversi tra loro. Si è alimentato, innanzitutto, della consapevolezza (non teorica) della interdipendenza nel mondo delle culture, delle economie, delle pratiche sociali. E insieme del valore della persona, indipendentemente da sesso, origine, credenza.

Sono giovani che da sempre rivendicano autonomia e conquista di spazi. Donne tornate sulla scena con una rinnovata consapevolezza della propria identità. Persone – a vario livello – che si son fatte più attente all’ambiente, non come scelta ideologica ma come necessità di vita. Forme di cooperazione nuove. Infinite situazioni di volontariato, inteso come realizzazione di se stessi prima ancora che di solidarietà. Persone che hanno scoperto la contrapposizione tra qualità e profitto. Lavoratori che nella perdita del lavoro hanno raggiunto la soglia del baratro, e misurano quanto costi essere abbandonati al mercato. Sono le centinaia di comitati che si formano per difendere un bene comune, o costituire una scuola materna, o pretendere un diritto. Sono i NO TAV, i referendari per l’acqua o contro il nucleare, e mille altri. A volte vincono, spesso perdono. Ma comunque ognuna di queste storie cambia la vita – e non solo quella degli attori –, suggerisce modi di essere diversi dall’esistente.

Non è facile trovare un comune denominatore tra costoro. Di certo, all’occorrenza, fanno scelte politiche che non dipendono dalle loro collocazioni ideologiche o confessionali o semplicemente tradizionali, di certo sono critici o potenzialmente critici nei confronti del sistema politico. Ma non sono né nichilisti né tantomeno asociali, anzi tendono a socializzare fuori dagli schemi. Non negano la delega, ma ne pretendono la costante verifica. Protestano ma solo in minimissima parte si rivolgono al qualunquismo o al grillismo. Anzi, essi fanno politica nel senso vero e proprio del termine. Costruiscono un tessuto variegato che in nuce vorrebbe sostituire l’assetto sociale esistente e le scale di valori praticate. Sono diversi tra loro, e spesso isolati. Ma – come sapete meglio di me –  tra loro comunicano. La comunicazione fuori dagli schemi tradizionali è divenuta pratica corrente e veloce.

La Radio ment. La Radio mente. Era il ’68 francese. Per dire che non ci si doveva fidare dei mezzi di comunicazione istituzionali o padronali. Il nuovo antagonismo non ha bisogno di proclamarlo, ma pratica canali che socializzano e di fatto si contrappongono ai media correnti. La nuova comunicazione – sappiamo – è un ingrediente essenziale dei movimenti recenti, dall’elezione di Obama alle rivolte dei Paesi arabi. Possiamo dire che la nuova comunicazione libera energie, fa nascere idee, consente di scavalcare censure, divieti, dogmi, dipendenze culturali, favorisce una riappropriazione di elementi di conoscenza e consapevolezza. I media tradizionali – in questo contesto – sono utilizzati per aggiungere, confrontare, ma meno di prima come fonti primarie di conoscenza. Lo sappiamo, ma spesso ce lo scordiamo.

Nella loro comunicazione troveremo ancor meno un nesso che ci aiuti a capire, tanto è varia, frammentata, contraddittoria. E neppure nei sondaggi troveremo risposte soddisfacenti, per quanti sforzi facciano i Mannheimer questo tessuto non risulta quantificabile e tantomeno decifrabile con gli strumenti convenzionali. Allora bisogna cercar di guardare con semplicità i fatti.

Quando occasionalmente si manifestano catalizzatori adeguati, questo nuovo sentire emerge e confluisce, con sorpresa di molti e soprattutto di chi non sa guardare oltre i modelli costituiti della prassi politica.

Mi diceva un amico, storico dirigente di Rifondazione comunista: “Se Pisapia al primo turno riesce a star sotto alla Moratti di 4 punti ce la possiamo fare!” Pisapia, nelle primarie, aveva superato Boeri, con un plus di voti nelle periferie, cosa che da decenni non succedeva alla sinistra. Il PD a questo punto era stato come risucchiato nella necessità di sostenere Pisapia. Un capovolgimento: non erano le forze politiche tradizionali a trainare e utilizzare le forme sparse del dissenso, ma al contrario era questo insieme disomogeneo a trascinare e costringere i partiti. Chi ha visto piazza del Duomo in quelle serate ricorderà fisicamente questo insieme composito e festante. Chi avesse colto la trasversalità che si era determinata avrebbe potuto essere assai più ottimista del mio amico di Rifo. Semplicemente – a torto o a ragione – molta gente, e molti che non votavano più, altri sfiduciati, ha visto in Pisapia una persona autonoma dal palazzo, per nulla brillante, anzi un po’ sottotono, ma ritenuto serio e indipendente, di sinistra ma non omologato, e quindi NUOVO, e perciostesso potenzialmente capace di tradurre quel quid che serpeggiava. Che i partiti non capeggino più questo diffuso sentire si è visto anche a Napoli e anche a Cagliari, sia pure in forme diverse. Quel che accade non è rifiuto della politica ma è ricerca di rappresentanze politiche che si ritengono capaci di farsi carico delle aspettative e di metterle al riparo dalle manovre di palazzo.

Dopo le amministrative si è visto lo stesso fenomeno nei referendum con una serie di successi esplosivi. Anche qui il maggior partito di opposizione a rimorchio, determinante nel conteggio dei voti ma incapace di esser lui a proporre le battaglie. E la storia si ripete paro paro con il referendum sulla legge elettorale.

Insomma un apparato politico che non sembra capace di cogliere occasioni, capire bisogni, proporre strade. Entreranno nella storia Bersani che come fosse una sfida chiede a B. di riferire in Parlamento; o D’Alema che si sente astuto puntando sui celebri capitani coraggiosi; o Veltroni che crede di rafforzarsi tessendo a destra con i centristi. Alchimie di palazzo. Hanno smarrito persino l’ABC della vecchia politica: le mediazioni, quando serve, si fanno doponon prima.

A onor del vero non solo i partiti, tutto l’apparto dirigente del Paese appare obsoleto, auto referenziato, salvo pochissimi casi. Se avesse lungimiranza si farebbe volentieri travolgere dal nuovo che avanza, anche se non è per nulla detto che questo nuovo sia capace di vincere. Forse la spinta sociale che è in atto – FORSE – riuscirà a produrre nuovi e più giovani rappresentanti, coraggiosi perché consapevoli di quel che succede, non accecati dai propri schemi, capaci di entrare costruttivamente nella crisi che prefigura un ridimensionamento del comando politico, una regia del capitale finanziario e una precarizzazione sistematica dei cittadini.

Credo sia qui la linea del fronte oggi, in un conflitto di cui nessuno può immaginare l’esito. Scontro tra potenti soggetti che si applicano al profitto puro, non contaminato da visioni della vita (bella o brutta), e dall’altra parte un fiorire di comportamenti e istanze che immaginano un mondo diverso e possibile.

E in casa nostra? Che cosa serpeggia per il Paese? Che cosa mette insieme centri sociali, preti democratici, vecchie figure della finanza cattolica, ambientalisti, comitati di lotta, donne, famiglie, formaggiai ecologici e volontari della CRI o della Caritas, gruppi di acquisto e ciclisti, studenti senza aule e ricercatori senza laboratori, risparmiatori truffati e naturalmente precari di ogni specie, certo anche giornalisti strutturalmente precari? Che cosa li fa ballare, in piazza del Duomo, tutti insieme, sotto il palco dell’avvocato Giuliano Pisapia, illustre sconosciuto ai più fino a ieri?

Manca un esplicito comun denominatore politico, almeno secondo i nostri schemi. Ma è una domanda che non possiamo eludere se vogliamo progettare in termini politici o sindacali qualcosa di efficace, che non sia meccanica riproposizione dell’esistente o conservazione dei ruoli. Dunque che cosa c’è sotto?

A me pare che in comune ci sia un senso di cittadinanza, di identità civile, di consapevolezza dei diritti: diritti, non privilegi, diritti connaturati al loro essere persone di una collettività cui appartengono e che a loro appartiene. E di più: una cittadinanza che è insieme locale e globale, specifica e in qualche misura universale. Un senso inedito di appartenenza misurato sul proprio immediato ma consapevole di una universalità non teorica. Cos’è stato se non questo – per fare un esempio – il referendum contro la privatizzazione dell’acqua?

Ma se ciò è vero, questo nuovo antagonismo manifesta una dimensione etica, una necessità etica che è alla ricerca di una traduzione politica. Non è solo questione di pulizia, vi si intravvede qualcosa di assai più profondo e impegnativo. Questa dimensione etica allude a una società nella quale si è tutti più forti se non ci sono deboli.

Nel nostro microcosmo: il garantito è più forte se non vi sono precari senza diritti, perché se i precari sono costretti a vendersi per un tozzo di pane anche i garantiti diventano vulnerabili; oppure: se i naviganti in rete vengono strozzati e repressi non saranno i media tradizionali a trarne vantaggio, bensì si mortificherà la già sofferente funzione informativa e i naviganti in rete cercheranno e troveranno altre strade che li allontaneranno sempre più dal vecchio. E i vecchi – come si sa – di solito muoiono prima dei giovani.

L’intervento di Piero Scaramucci è stato letto il 23 ottobre 2011, a Milano, in apertura del primo Congresso di Nuova Informazione

       
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