Aggiornato al

I NOSTRI EDITORIALI

Qui trovate la nostra storia, la nostra carta di identità, i nostri impegni programmatici e le biografie dei nostri delegati.

C'è bisogno di giornalismo, più di ieri

C'è bisogno di giornalismo, più di ieri

di Raffaele Fiengo

(Fiesole, 07/06/2008, 19.06)

Nel 1994, mentre Fiesole andava in letargo, si sono consolidate (con le elezioni politiche e la presenza di Berlusconi a palazzo Chigi)

le prime conseguenze istituzionali dell’anomala democrazia italiana. La manifestazione del 25 aprile a Milano sotto la pioggia fu il segno più evidente di quanto fosse ampia la consapevolezza civile sulla questione. A novembre fu pubblicato, proprio a Firenze, su “Belfagor”, il “Manifesto democratico 1994”, un documento in dieci punti al quale ho dato un personale contributo insieme con Cesare Segre e Corrado Stajano. Il testo ebbe una lunga gestazione, ne ricordo 19 versioni attraverso dibattiti nelle università e nelle case editrici su singoli punti. L’ho riletto attentamente prima di venire a questo incontro di Fiesole e penso che, in particolare, due di questi punti, per la chiarezza del testo, possono essere tra gli elementi fondanti richiamati nel momento in cui Fiesole torna. Il ruolo decisivo dell’informazione e la trasmissione di valori e saperi sono, infatti, le chiavi del rapporto tra giornalismo e democrazia entrato in stato di crisi in Italia da molti anni.

Ecco i testi:

- “La libertà della parola parlata e della parola scritta è alla base di tutte le altre libertà. Fondamento concreto della democrazia è dunque l’esercizio effettivo della libera espressione del pensiero e dei diritti di informazione. Costituisce un attentato quotidiano contro di essa il monopolio dei mezzi potentissimi con cui può essere limitata, falsata, influenzata o conculcata. Le antenne con le quali milioni di uomini sono usciti dall’isolamento costituiscono per ciascun cittadino un bene prezioso e delicato di cui nessuno può avere il dominio assoluto”.

- “Le nuove generazioni hanno sofferto per le carenze nell’impegno educativo, da parte della famiglia e della scuola di ogni grado. È necessario dare l’avvio a un forte processo di trasmissione dei saperi e di acculturazione, che ponga gli individui in condizione di riappropriarsi di principi che sono fondamentali: quello della tolleranza e dell’aiuto reciproco, quello del rispetto insieme dei diritti e dei doveri. E occorre a far riscoprire a chi li ignora e far accettare a chi li mortifica i valori concreti della cultura: i quali, insieme con i precedenti, sono fondamento della nostra umanità e della dignità di vita.

- “Negli interstizi di un sistema chiuso dei meccanismi di potere, non pochi individui liberi e responsabili hanno continuato a coltivare la trasmissione dei saperi e hanno costruito, o tentato di farlo, le premesse di una società più libera e più giusta. Questo processo di liberazione deve riprendere e allargarsi per aumentare la consapevolezza individuale all’interno di una società di massa e per restituire il senso della vita e la dignità alle nuove generazioni.

- “Chiunque si trovi inserito nei processi produttivi deve rivendicare il diritto e il dovere di non contribuire all’imbarbarimento, di fare invece cultura, di essere titolare della propria vita. Questa capacità di mettere la cultura dentro le attività, le manifestazioni e gli svaghi quotidiani e dentro i prodotti, anche di massa, nel nostro Paese esiste. Cerca solo una rappresentanza seria e disinteressata.

- “Anche da qui possono venire l’eguaglianza delle opportunità, la giustizia, la sicurezza e l’ordine”.

Con questo orizzonte, se vogliamo trovare e proporre una strada, dobbiamo andare al cuore del malfunzionamento del giornalismo, una delle cause più dirette del declino ora ancora più evidente. Personalmente non condivido chi (New York Times) sembra considerare irreversibile questa deriva (la morte dei giornali), né penso che avvenga soltanto in Italia. Ma dobbiamo guardare in faccia i cambiamenti avvenuti nel senso comune. Due novità significative e poco enunciate: “IL RIFIUTO DELLE ELITE” E “L’ORIZZONTE DOMESTICO”.

Il rifiuto delle élite

Il rifiuto delle élite è una distorsione della crescita individuale, economica e sociale che ha allargato i consumi e valorizzato i soggetti. Semplificando al massimo il discorso, si comprende come mancanze gravi nei singoli fattori che arrivano ai cittadini (precarietà, perdita di reddito, incapacità della pubblica amministrazione, scuola, cultura, informazione…) possano portare alla rinuncia della politica come rappresentanza. Se l’immigrato mi piscia sulla porta voglio solo che lo caccino via, non cerco qualcuno che lo integri con dignità nella comunità. Se la Romania entra in Europa e migliaia di persone, per di più molti zingari, non tutte bene intenzionate, si stabiliscono con disordine da noi, non cerco i sociologi o i tecnici o il buon politico, capaci di coniugare dignità e sicurezza; mi affido a chi rozzamente li allontani, e subito. Senza tanti ragionamenti. Questo processo è certo favorito quando l’élite acquista caratteri di casta, si chiude e accumula privilegi. Non amministra i problemi, li accompagna soltanto con i dibattiti. Una controprova clamorosa: alla vigilia del 31 dicembre 2007, data fatidica dell’ingresso in Europa di Romania e Bulgaria, nessuno si è posto il problema di una prevedibile onda anomala rumena. E anche i giornalisti: dov’erano? E dov’erano nei 15 anni in cui l’immondizia ha occupato la Campania?

Una nuova rivoluzione culturale è in corso? È quanto pensa Liberation che sta lanciando per il 13, 14 e 15 giugno una grande riflessione pubblica per capire se possano esserci, e quali siano, le forme nuove di rapporto tra i cittadini, lo Stato e la cultura. C’è una “cultura del popolo” meno elitaria. Quali sono le nuove relazioni sociali che nascono. Su tutto campeggia una parola: populismo. Sabato 5 gennaio 2008 Vittorio Feltri, sotto l’occhiello “rivolta a Napoli”, ha titolato la prima pagina di “Libero” così: “LA VOGLIA DI IMPICCARLI”. La grande foto di uno dei fantocci appesi con i nomi Iervolino-Bassolino rendeva la frase ancora più chiara. Certo un bel numero di copie vendute a Napoli, travolta dalle immondizie, dove di solito non si comprano molti quotidiani. Feltri accarezzava “la cultura del popolo”?

Non si pubblica una inchiesta che spieghi come e perché la Campania sia l’unico posto d’Europa dove non si riesca a raccogliere e smaltire le immondizie. Libero si colloca, invece, al centro della piazza inferocita. Esattamente come il comiziante nel più classico esempio della dottrina liberale in materia di libertà di manifestare il pensiero: l’uomo che da una tribuna parla a una folla affamata per la carenza di pane, puntando il dito verso i forni dove i panettieri nascondono la farina per far alzare i prezzi. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha sempre fatto ricorso a una espressione, “Clear and present danger”, un pericolo chiaro e presente, per ipotizzare o configurare i limiti ovvi e naturali alla libertà di manifestare il pensiero. È una problematica seria, in Italia spesso ricordata con esattamente la stessa formula “clear and present danger”, fin dagli anni Sessanta e Settanta da Guido Calogero, filosofo della politica certamente liberale e democratico.

Ovviamente Feltri non grida dalla tribuna di una piazza con il popolo pronto a impiccare il traditore Masaniello in piazza Mercato. Nessuno spirito censorio dunque. Ma è bene che si sappia chiaramente dove si pone rispetto al buon giornalismo con scelte di questo tipo. Gli italiani sono in declino? Se il telegiornale dice che “Garlasco è il giallo clou dell’estate” è possibile che nessuno dica niente. se un giornale nazionale gioca con la voglia di impiccare, ci sono o no delle responsabilità etiche e professionali in coloro che hanno ruolo nella formazione del senso comune? A Parigi Nicolas Sarkozy (presidente di destra) ha varato una “politica di civilizzazione” utilizzando una invenzione linguistica di Edgar Morin (sociologo di sinistra). Insomma non siamo nel campo degli schieramenti, ma della civiltà. In Italia alla ribalta pochi maestri, professori, studenti, scienziati. Molti demagoghi. Anche nel giornalismo.

L’orizzonte domestico

Il secondo elemento forte è “l’orizzonte domestico”. Ho sentito per la prima volta usare questa espressione per illuminare uno dei caratteri-chiave delle difficoltà presenti in Europa da Alexander Langer, un uomo straordinario che ha messo la sua vita sull’orizzonte della civile convivenza, non solo in Sud Tirolo, ma nella ex-Iugoslavia. Il suo scoramento fu totale quando non riuscì più a far parlare insieme, a Dubrovnik slavi, musulmani, ebrei e cristiani. “Si spareranno addosso”.

In Italia non siamo a tanto, i fucili di Bossi sono una cattiva metafora. Ma l’orizzonte corto è un fatto. Il risentimento sull’euro è superiore all’apprezzamento della pace stabile tra europei che, con la moneta unica, hanno cancellato le proprie guerre interne che fino a ieri hanno ucciso milioni di persone.

Rifiuto delle élite e orizzonte domestico sono insomma dati di fatto, il terreno su cui si giocano le decisioni dei cittadini. Il tutto rumoroso: come dice giustamente Gillo Dorfles, un eccesso di segni e immagini confonde anziché chiarire. Abbiamo più informazione primaria, peraltro tendenzialmente gratuita. Ma non abbastanza conoscenza. I cittadini non hanno i saperi necessari per essere protagonisti: l’aria cattiva delle città minaccia i loro bambini, ma lo sanno genericamente e non sono in grado di eleggere chi pone l’aria pulita come priorità. Si caricano di acqua nei supermercati, come quando andavano a prenderla alla fontana ai primi del Novecento. Adesso però la pagano anche. Né vedono quanto è stato importante avere l’acqua da bere dal rubinetto di casa. Non sono liberi. E il giornalismo non fa la sua parte. È indispensabile, ma non c’è. O, meglio, è evanescente. Non solo in Cina, in Russia, in Medioriente.

Da tempo ci si affanna per capire se il giornalismo sopravviverà e come. Qualcosa ormai si sa: 1) Non moriranno i media di qualità; 2) la qualità sta soprattutto nella credibilità; 3) La credibilità nasce dalla indipendenza. In verità questa è la formula del giornalismo che manca. Un colpo gliel’ha dato anche l’11 settembre. Perfino il New York Times ha subito le falsificazioni che hanno portato alla guerra sbagliata in Iraq, frutto del marketing e non lo dico come metafora. La società Rendon Group, incaricata dal governo di Washington, ha gestito l’esule da Bagdad che sosteneva di aver visto le armi di distruzione di massa. Nonostante la conferma che diceva il falso (prove con la macchina della verità di Tailandia), il materiale è stato “passato” ai media al massimo livello. (“Rolling Stone”, “The man who sold the war”, 17 novembre 2005). E il Italia? Per più di dieci anni le immondizie hanno piano piano preso una intera regione senza che i media vedessero nulla: nella relazione parlamentare sui rifiuti si racconta di 50 camion appena comprati dall’ufficio del commissario e subito rubati tutti insieme. Perché non abbiamo letto la storia? Abbiamo dovuto apprendere dalla Corea del nord che c’era diossina nella mozzarella. Un litro di latte fresco a un euro e 70 provoca stupore, ma a nessuno viene in mente di spiegare perché nei supermercati di Barcellona costa 65 centesimi e 90 ad Amsterdam.

Il giornalismo insomma serve più di prima e ce n’è meno di prima.

È questo che ci ha riportato a Fiesole.

Che cosa possiamo fare noi? Rispetto al passato ci sono modi diversi di comunicare e anche di fare movimento. E non mi riferisco né ai girotondi, né a Grillo. Tutti gli strumenti sono ancora presenti, ma il meccanismo per parlare ai singoli e avere con loro sintonia non si esaurisce con le prese di posizione e le opinioni ancorché puntuali. Sono scettico. Temo che sia come partecipare a un talk show gigantesco. Dobbiamo raggiungere i cuori e le menti. Come Benigni con Dante, Dario Fo in teatro, Walt Disney con Biancaneve, Stravinsky con “Histoire du soldat”, Charlie Chaplin con “Luci della città”. Non si richiede la patente di genio, ma il mestiere vero del giornalista.

È davvero importante che la giornata del 12 maggio abbia trovato il valore primario di cui abbiamo bisogno: l’indipendenza. Lo statuto dell’impresa giornalistico e l’autonomia della Rai dai partiti sono due applicazioni sul campo di questo valore.

Per il primo tema non credo che si arrivi a una legge. È un obiettivo sul quale coinvolgere Stefano Rodotà e Roberto Zaccaria che l’hanno ricercato fin dai primi anni Settanta. Due colleghi hanno anche delineato proposte operative: Massimo Mucchetti (“Il baco del Corriere”) e Enzo Marzo “Le voci del padrone”. Chiamiamo anche loro. Personalmente devo dire che l’indipendenza garantita da un assetto giuridicamente valido è il sogno al quale lavoro da oltre trent’anni. La proposta che porto è esattamente quella di Luigi Einaudi e Luigi Albertini. La creazione di un cuscinetto che separi gli interessi non editoriali degli azionisti dalla gestione dell’informazione affidata ai giornalisti. Una ottica, dunque, liberale compatibile con il pieno rispetto della proprietà. Modello Economist, nato negli anni Trenta e tuttora funzionante alla grande.(“ Presenza di un organo indipendente dalla proprietà con potere di veto su due momenti fondamentali della vita del giornale. Nomina e rimozione del direttore e cessione di quote proprietarie” secondo una sintesi di Diego Della Via, da chiamare nel gruppo di lavoro, giovane studioso laureato, a Padova, con una tesi proprio sulla struttura che garantisce l’indipendenza dell’Economist).

Per la Rai, lo schema Bbc che è anche alla base della riforma introdotta da Zapatero in Spagna. La sinistra Rai è d’accordo? Spero di sì. Come può agire in concreto Fiesole? Mi convincono i due incontri l’anno e i gruppi di lavoro aperti. Però sento il bisogno di ragionare insieme per andare oltre.

Quando è passato il tempo delle assemblee affollate (valide ovviamente oggi solo davanti a grandi fatti diretti e specifici), ho trovato efficace la tecnica di diffondere informazioni significative che, di per sé, costituivano azione sindacale, creavano community su una singola vicenda, trovavano adesione nei giornalisti. Esempio: l’offensiva nei media ai tempi di “Luna Rossa”, esagerata. I quotidiani pubblicavano due pagine al giorno anche quando non c’era vento perché Tods e Prada avevano entrambi prenotato piedi di pagina. Il racconto in venti righe dal cdr a tutti i colleghi del ridicolo (con magari lettera di protesta al direttore) “era” l’azione sindacale. Oggi chiediamo ai cdr di allargare la mail list informativa a tutti coloro che hanno un contratto, anche non giornalistico, a freelance e collaboratori. I redattori hanno perfino interesse a coinvolgere e rendere più forti gli esterni.

Manderei insomma a una mail list larga non solo opinioni, ma anche fatti, notizie trovate e magari costruite da noi o in rapporto con “Articolo 21”, con “Lsdi”, con le redazioni create dalla fondazione “Libera”.

Pensavo, in verità, a due esempi banali. 1) Una inchiesta sul prezzo del latte fresco in Europa, fatta magari con le scuole di giornalismo in collegamento con corrispondenti dei grandi giornali o agenzie o tv (raccontando la filiera per scoprire dove sta l’anomalia italiana). 2) Una inchiesta, più complessa sui rifiuti partendo dai 50 camion rubati a Napoli. Poi iniziative più strutturate: Lsdi.it sta mettendo in piedi, con Maria Itri (salvatrice delle carte di piazza Fontana che stavano marcendo) uno studio sulle fonti usate dai giornali italiani. È da appoggiare, sia con risorse Fnsi, sia con disponibilità a far da ponte nelle singole realtà e città.

 

       
    Il sito Archivio notizie

logo nuova informazione