Luca De Biase
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L’alba di un nuovo giornalismo
Luca De Biase
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di Luca De Biase
Dalla strategia della disattenzione alla lotta per l’attenzione
Il problema
“Il vecchio George Orwell aveva capito tutto, ma al rovescio. Il Grande Fratello non ci osserva. Il Grande Fratello canta e balla.
Tira fuori conigli dal cappello. Il Grande Fratello si dà da fare per tenere viva la tua attenzione in ogni singolo istante di veglia. Fa in modo che tu possa sempre distrarti. Che sia completamente assorbito. Fa in modo che la tua immaginazione lentamente avvizzisca.
Se tutti quanti ci ritroviamo con l’immaginazione atrofizzata, nessuno mai costituirà una minaccia per il mondo.”
Chuck Palahniuk, Ninna nanna, Mondadori 2003 (edizione originale Lullaby, 2002)
Ogni riferimento a persone realmente esistite è puramente casuale.
Ma l’intuizione di Palahniuk non lo è. Lo sviluppo umano dipende dall’immaginazione, dalla conoscenza basata sui fatti, dall’azione consapevole, dunque dalla libertà di espressione e di circolazione dell’informazione: ma questa libertà è minacciata, da una parte, dal controllo autoritario che seppellsce i fatti nel segreto e, dall’altra parte, dalla moltiplicazione di messaggi che copre i fatti con la disattenzione o l’indistinzione.
C’è a questo proposito una vera e propria “strategia della disattenzione“. E, come scrive Luca Chittaro, docente di interfaccia uomo-macchina all’università di Udine, si può proporre una semplice equazione della disattenzione: un eccesso di informazione unito a una razionalità limitata genera comportamenti automatici, cioè non liberi e non consapevoli.
La qualità dell’informazione è importante quanto la quantità di informazione. Anzi, la rete ha dimostrato che quantità e qualità dell’informazione sono fenomeni collegati. Perché con l’aumento della quantità, aumentano anche le probabilità che emergano informazioni migliori. Ma quando la quantità cresce ancora diventando eccessiva rispetto alla capacità di filtrarla, selezionarla, criticarla, controllarla, contestualizzarla, allora aumentano anche le probabilità che l’informazione nel suo complesso peggiori.
Quando la quantità di informazione raggiunge una soglia tanto elevata che ne appare difficile la gestione, emerge il problema dei modi con i quali si può rinnovare il sistema dei filtri selettivi e critici, per via tecnologica o culturale, con lo scopo di rivalutare la qualità non solo del sistema dell’informazione nel suo complesso ma anche delle sue componenti e persino di ogni singolo elemento informativo.
E da questo punto di vista, la qualità dell’informazione dipende dal metodo con il quale è prodotta, distribuita e interpretata la conoscenza dei fatti: dipende dall’epistemologia che governa la scrittura del testo, dalla condivisione delle caratteristiche del contesto, dalla trasparenza di ciò che sta nel sottotesto (come scriveva Marc Soriano). L’internet è una grande liberazione dal controllo, una fucina di alternative ai sistemi dell’informazione tradizionale, un motivo di crisi per i filtri tradizionali che controllavano la quantità di informazione disponibile (la crisi dei filtri editoriali in particolare, come dice Clay Shirky, è connessa all’information overload), un territorio straordinario di sperimentazione, una piattaforma per realizzare innovazioni impensabili: il che è un vantaggio epocale. Ma ovviamente non è una macchina per la liberazione dalla confusione tra fatti e messaggi, non è un generatore automatico di consenso intorno al contesto necessario all’interpretazione delle informazioni, non è un rivelatore di retrotesti. In questo senso, come spesso si osserva, il tema supera quello tecnologico e diventa socio-culturale.
C’è l’argomento della metodologia di raccolta e narrazione dei fatti. E c’è l’argomento dell’interpretazione dei fatti. Context is king, si dice. Ogni semplificazione contiene un problema. E la soluzione può essere razionale, consapevole, epistemologicamente coerente, oppure imprecisa e banalizzante. E i fratellini incantatori di Palahniuk sanno come far prevalere la seconda soluzione. Nelle società che governano con la strategia della disattenzione, i fratellini di Palahniuk si fatica a distinguere la narrazione dei fatti dalla fiction, si fatica a capire se esiste una narrazione della società o se la società si adatta alla narrazione: nelle società dei fratellini di Palahniuk lo sviluppo umano è minacciato dalla manipolazione dell’informazione, dall’eccesso di comunicazione, dall’abilità di alcuni di tenere accesa l’attenzione su alcune storie, di distrarre da altre, di raccontare la vita sociale con le tecniche della fiction, dell’ideologia, della paura.
In una società senza conoscenza dei fatti e della realtà non si sviluppa l’immaginazione e l’innovazione. Non si costruisce il futuro. Lo si subisce, come se fosse uno spettacolo da seguire standosene comodamente sdraiati sul divano.
Sono questi i problemi che rendono urgente la riflessione sul sistema dei media, sul pubblico attivo, sull’informazione, sul lavoro dei giornalisti. E persino sull’editoria.
Purtroppo, il compito di elaborare intorno a tutto questo è molto arduo. Come quello di trovare la strada per uscire da un labirinto di specchi. Perché quello che vogliamo imparare a conoscere è il modo in cui conosciamo e impariamo.
Se il solo modo per trovare una mappa è recuperare il metodo empirico, l’analisi razionale, l’epistemologia condivisa della ricerca, alimentando l’immaginazione con la conoscenza della realtà e non con l’ipertrofia della fiction, allora la strada è difficile. Perché chiunque sceglie e pensa in modo irrazionale molto più spesso di quanto non scelga e pensi in modo razionale, come dimostra Daniel Kahneman, psicologo e Nobel per l’economia.
Occorre una mappa. Sappiamo che il vecchio regime è sotto pressione e forse è persino destinato a saltare. E sappiamo che come sempre, prima o poi, ce ne sarà un altro. Siamo nel pieno della transizione: il che significa che alcune soluzioni tradizionali sono destinate a terminare, alcune riusciranno ad adattarsi e superare la crisi, altre del tutto nuove nasceranno. Nella fase di transizione non c’è ancora la verifica delle idee che si propongono ma solo la loro complessa contesa. E poiché la mediasfera coinvolge tutti, tutti pensano che la mappa giusta sia la loro, come nella Biblioteca di Babele.
Per arrivare a un contesto comune, in passato si faceva riferimento al concetto di opinione pubblica, che a sua volta dipendeva dall’esistenza di un ceto medio relativamente colto e influente la cui informazione dipendeva da un sistema di giornali relativamente colto e influente. Ma in una fase di transizione che mette in discussione sia l’influenza del ceto medio sia la solidità dei giornali, l’opinione pubblica sembra frammentarsi in un mosaico nel quale si fanno notare spesso alcune forme di populismo televisivo e di aggregazione per gruppi culturalmente omogenei, anche, non solo, basate sul passaparola internettiano. Chi ritenga che valga la pena riflettere sulla transizione dedicando una certa attenzione ai giornali, ai giornalisti, agli editori, non può dunque che partire riflettendo sulle trasformazioni che riguardano l’arbitro assoluto e inappellabile del destino dei giornali: il pubblico.
Il pubblico
L’arbitro di tutto è il pubblico. Non solo in teoria, ma sempre più anche in pratica: perché la singola più importante conseguenza di internet è che, rispetto ai media tradizionali, abilita il pubblico a compiere azioni molto influenti. Può scegliere tra molte più alternative, può contribuire, può generare valore oppure disperderlo adottando, respingendo o di fatto utilizzando in modo imprevisto e modificando i servizi e i contenuti delle piattaforme che si propongono alla sua attenzione. I media dell’epoca industriale – la radio e la televisione – avevano separato nettamente la fruizione dalla produzione, come scriveva Hans Magnus Enzensberger, nel 1970, in Constituents of a Theory of the Media: il pubblico da una parte dello schermo, la produzione dall’altra. Una macchina gigantesca per il controllo totale del palinsesto e dell’agenda collettiva in cambio di qualche telefonata in diretta. Ma come ogni altro elemento della vecchia società dei consumi di massa, anche questo è in via di trasformazione: i media dell’epoca della conoscenza valgono se generano valore e sono percepiti come capaci di generare valore, dunque non vivono senza una ridefinizione dell’equilibrio dei ruoli di autori e pubblico.
La prima decade del nuovo millennio è stata una grandissima esplosione di infodiversità nella mediasfera globale e italiana. Negli ultimi cinque anni si è strutturata in forme chiare e forti. E nel 2009 c’è stata un’accelerazione straordinaria. Con un aumento forte dei media sociali, un’erosione della televisione generalista, un calo dei giornali di carta. Come saranno i prossimi cinque-dieci anni? È ovviamente una domanda che con un po’ di understatement si potrebbe definire… difficile. Ma abbiamo una piccola certezza: i prossimi cinque-dieci anni dipendono pienamente da quello che viene costruito ora.
Da chi? Da tutti, naturalmente. I cittadini. Il pubblico. Il pubblico attivo, soprattutto. E poi i giornalisti, gli editori, i pubblicitari. Che sono a loro volta pubblico, oltre a occuparsi professionalmente della loro parte di mediasfera.
Il pubblico non professionale non ha alcun dovere di contribuire. Di solito si fa i fatti suoi. Spesso sta nella dimensione della comunicazione tra conoscenti. Qualche volta accede allo spazio dell’informazione pubblica. E sempre più spesso partecipa attivamente alla produzione, alla trasmissione, alla critica di quello che circola nel sistema dei media. Attraverso il grande medium delle persone che condividono emozioni, link, notizie, foto, video, opinioni, sui media sociali come i blog, Twitter, Facebook, YouTUbe, Flickr ecc ecc… Un medium che collega la comunicazione tra le persone al sistema dell’informazione pubblica.
Il successo di internet e delle piattaforme di condivisione delle informazioni che continuano ad alimentare l’ebollizione innovativa della rete deriva dall’entusiastica adozione di queste tecnologie da parte del pubblico attivo, quello che in ogni caso già fruisce in modo ampio e variegato delle opportunità offerte dai vari media.
Il solo arbitro del successo di un giornalista, di un giornale, di un editore, di una formula editoriale, di una piattaforma, persino della pubblicità, è il pubblico. E che cosa pensa il pubblico di questa crisi dei giornali?
O meglio: il pubblico si interessa della crisi dei giornali? Indizio numero uno: se la risposta fosse affermativa, se ne troverebbe traccia nei movimenti di quel mezzo miliardo di persone che usano Google. Google Trends mostra che la gente chiede sempre meno al motore la parola “newspapers” e le altre parole simili. Mentre i giornali usano sempre più spesso questa stessa parola.
Come dire: i giornali parlano sempre di più di se stessi, mentre il pubblico si interessa sempre di meno dei giornali. Ma le spiegazioni di questo grafico possono essere molte e diverse. Ci vuole un secondo indizio.
Indizio numero due: il pubblico riceve continuamente messaggi sull’importanza dell’informazione giornalistica per la democrazia e la tenuta della convivenza civile; ma compra sempre meno giornali. Come se non fosse interessato alla loro sorte. Perché, come riportano Massimo Gaggi e Marco Bardazzi, crede sempre meno ai giornali. Gaggi e Bardazzi accennano alla questione riportando i risultati degli studi condotti in materia all’università di Chicago “che da decenni tasta il polso all’opinione pubblica per capire quanto si fidi delle varie istituzioni americane. Dagli anni Settanta fino alla metà degli Ottanta, la stampa in quanto a credibilità era alla pari con i militari, il Congresso, le fedi religiose. Ma negli anni Novanta ha cominciato a perdere posizioni. Nel 1990 il 74 per cento degli americani era ancora pronto a dire di avere fiducia nella libertà di stampa e nei contenuti dei media. Ma dieci anni dopo la percentuale era già slittata al 58 per cento. E da allora ha continuato a scendere, bocciando indistintamente organi di stampa progressisti e conservatori”.
Due indizi non sono ancora una prova. Ma un sospetto lo fanno venire: si direbbe che il tema della crisi dei giornali– al quale i giornali stessi dedicano crescente attenzione – non appassioni il pubblico.
Eppure, l’informazione interessa. I siti gratuiti dei giornali sono sempre più visitati. E sono sempre più utilizzate anche le applicazioni per smartphone che fanno accedere alle notizie. Comprese quelle a pagamento: nel primo mese dal lancio, il Guardian ha venduto 70mila copie dell’applicazione che consente di leggere le notizie del giornale britannico, a 2,39 sterline ciascuna. Il pubblico compra Kindle e iPad per leggere, anche a pagamento. Ma ovviamente va dove c’è informazione disponibile. E dove la rete sociale delle persone in qualche modo collegate attira l’attenzione. Le persone passano sempre più tempo su Facebook che a sua volta produce più traffico sui siti di informazione di quanto ne produca Google News. E certamente non sono fedeli a questa o quella testata per quanto riguarda le informazioni commerciali: i classified ads, la piccola pubblicità degli annunci pubblicati sui giornali di carta in America, si sono prosciugati, da 19,6 miliardi nel 2000 a 6 miliardi nel 2009. Meno 70%. (fonte: Poynter). Craiglist ha disintermediato. Il pubblico attivo ha molte alternative e le usa tutte secondo quanto preferisce. I media tradizionali non hanno più il controllo della filiera, ma si trovano costantemente davanti l’alternativa generata da un medium fatto di persone, potentissimo e incontrollabile, come un gigantesco passaparola.
La crisi dei giornali non interessa il pubblico. Almeno fino a che viene presentata come una crisi dei grandi poteri dell’informazione del passato. Talvolta percepiti come fuori sincrono in una società che attraversa un’accelerata evoluzione. Il destino dei giornali e dei loro editori diventerà interessante solo se sarà percepito come un’occasione di trasformazione per creare qualcosa di meglio. Solo se i ceti sociali che li leggono torneranno a sembrare capaci di leadership culturale. Solo se non continueranno al lasciarsi spiazzare dalla televisione che presenta come ammirevole non chi legge i giornali ma chi sa apparire. Solo se dimostreranno di saper generare e trasportare le informazioni metodologicamente migliori.
E’ dunque ora di smettere di parlare di crisi dei vecchi editori e cominciare a dimostrare l’esistenza di progetti di innovazione e miglioramento qualitativo dei prodotti e dei servizi.
Da questa domanda dipende la sorte degli editori. Nel contesto storico in cui, che gli editori intendano partecipare o meno, stiamo assistendo al tramonto di un mondo ma non alla fine del bisogno di informazione, che anzi resta enorme. Sì: ha dda passà ‘a nuttata. Perché poi ci sarà l’alba. Di un nuovo giornalismo.
Cronache di crisi annunciate
Nell’aprile del 1999, Andy Grove, capo dell’Intel, annunciò ai leader delle grandi aziende editoriali americane che i giornali di carta avevano ancora tre anni di vita. Non era la prima volta che si parlava di questo possibile scenario. Tanto che nel resoconto del New York Times si legge che forse gli editori avrebbero potuto alzare gli occhi al cielo per l’ennesima predizione catastrofica sul loro business. Ma non lo fecero. Perché quello era Andy Grove. E perché raccontava come anche all’Intel era toccato di affrontare una crisi simile, quando alla fine degli anni Ottanta aveva perso il mercato delle memorie contro la concorrenza di produttori imbattibili sul piano dei costi. E per Grove i giornali si trovavano di fronte alla concorrenza di sistemi a basso costo di distribuzione basati su internet che li avrebbero spiazzati. E consigliava di prendere le misure necessarie a trovare un nuovo centro al loro business. Su Salon si trova ancora l’articolo dell’Associated Press che intervistava molti presenti. Ben pochi volevano fare la figura di chi non è abbastanza moderno da negare il problema. E molti invece davano sostanzialmente ragione a Grove, non magari sui tre anni, ma sulla tendenza di fondo.
Nel 2002, tre anni dopo appunto, i giornali non avevano chiuso e per la verità ben pochi parlavano di una loro crisi. Invece, erano state molte aziende internettiane fiorite tra il 1998 e il 2000 a chiudere o andare in crisi, insieme alla storia finanziaria che aveva favorito la bolla speculativa di quella fine millennio: anche l’Intel di Grove aveva perso una bella percentuale della sua capitalizzazione. Ma un fenomeno continuava a crescere, anche se non era sotto i riflettori: mentre si erano prosciugati i fiumi di dollari che andavano a finanziare start-up internettiane, un oceano di persone continuava a spostare tempo e attenzione verso quello che trovava su internet. Non solo per consultare. Anche per partecipare. E proprio in quel periodo prendeva il volo un fenomeno nuovo: i blog di informazione.
In quel 2002, il pioniere dei blog Dave Winer, lanciò una scommessa sul sito Long Bets immaginando che cosa sarebbe successo nei cinque anni successivi: «Cercando su Google le cinque parole-chiave o le cinque frasi capaci di rappresentare le notizie più importanti del 2007, i blog compariranno più in alto del sito del New York Times». Martin Nisenholtz, ceo del New York Times Digital, accettò la scommessa: duemila dollari.
Seguirono anni scanditi dall’ascesa travolgente di Google, dalla nascita di Flickr, Facebook, YouTube, le mega-acquisizioni di Skype (eBay) e appunto YouTube (Google). La pubblicità sulla rete raddoppiava di anno in anno. Intanto, decollava il fenomeno iPod-iTunes, prova generale della nuova leadership della Apple. Ed esplodeva la moda di MySpace, che pareva inarrestabile, almeno fino all’acquisizione da parte di News Corp. Si inventò il termine web 2.0 per parlare della nuova internet delle persone. Il pubblico che aveva massicciamente adottato la rete ora si faceva sentire davvero.
Nel agosto del 2006, l’Economist si era accorto che qualcosa di grosso era accaduto all’industria dei giornali. Aveva analizzato la situazione, era arrivato alla conclusione che i giornali di carta erano morti e che qualcuno li aveva assassinati. La copertina si intitolava infatti Who killed the newspaper?
Nel 2007, Winer vinse alla grande la sua scommessa. I blog, nel 2007, erano diventati tanto popolari e citati tra gli utenti di internet da superare il grande giornale newyorkese nel “ranking” di Google.
Con la crisi finanziaria iniziata nel 2008 e peggiorata nel 2009, la questione investì in pieno gli editori. La pubblicità se n’era andata. I lettori avevano continuato a diminuire. I bilanci di una quantità incredibile di giornali andarono in rosso (non quelli dell’Economist che comunque ci aveva cominciato a pensare molto prima e non quelli del Financial Times, anche grazie alla quota detenuta nell’Economist). Ci fu una bizzarra querelle, alimentata dagli editori più ondivaghi nella loro strategia internettiana, come Rupert Murdoch, secondo la quale i giornali avevano diritto a un pagamento per i loro prodotti: nessuno lo negava, il problema era scoprire come potevano ottenerlo.
Avrebbero dovuto investire per tempo sull’innovazione, gli editori, ma (e questo Grove lo aveva previsto), cominciarono a farlo solo quando la crisi li aveva costretti a preoccuparsi veramente. E per loro fortuna quando erano veramente preoccupati lo stesso mondo digitale che li aveva messi apparentemente in crisi aveva prodotto un’alternativa interessante, i cui effetti potevano rivelarsi immediati e abbastanza rassicuranti.
No, non il Kindle. Nel 2010 arrivò l’iPad e alcuni sentirono che era la nuova piattaforma che faceva giustizia del web così difficile da usare per i prodotti a pagamento. Ma capirono che era una piattaforma che imponeva di fare prodotti migliori. Insomma, dava un senso all’investimento all’innovazione, non ne eliminava la necessità.
Si può raccontare tutto questo al passato perché è la premessa di quello che deve succedere. E che può essere molto, molto interessante. Potremmo essere alla vigilia di una storia degna della bellezza che abbiamo vissuto negli ultimi dieci anni. Perché finora l’ecosistema dell’informazione ha visto una fioritura di nuove iniziative e un’erosione delle attività tradizionali. In questo processo, anche grazie alla crisi, è emersa una consapevolezza: non stiamo parlando di scenari e previsioni azzardate; sta succedendo qualcosa di molto reale. E questa consapevolezza è la premessa per fare un salto di qualità nelle risposte da parte di tutti i soggetti implicati: editori, pubblicitari, giornalisti, designer, tecnologi, pubblico attivo, comunità.
Ma supponendo che almeno alcuni editori arrivino davvero a investire nell’innovazione, il loro percorso avrà bisogno di un sistema di ricerca, di un approccio sperimentale, di ipotesi e di teorie. Occorre immaginare una prospettiva che le possa guidare.
I media professionali in prospettiva
Le domande di chi intende teorizzare sulla prospettiva dei giornali riguardano: il contesto sociale al quele devono servire, la struttura mediatica che devono sfruttare, i modelli di business che possono sviluppare. E il tutto parte da una teoria della scarsità.
Nel sistema dei media tradizionali, la scarsità dipendeva dalla tecnologia almeno tanto quanto dipendeva dalle persone che la usavano per produrre e distribuire informazione. E i modelli di business degli editori si fondavano proprio sulla scarsità generata dai sistemi di trasmissione e distribuzione dell’informazione. L’ipotesi era che la domanda di informazione era sostanzialmente abbondante: quello che mancava era l’offerta. E l’offerta era scarsa perché erano pochi quelli che potevano produrre informazione, erano limitati i mezzi sui quali quella informazione poteva essere trasmessa e fruita. Il loro prezzo ne era la conseguenza.
Nel modello tradizionale dei giornali di carta, la scarsità era nella carta e nella filiera industriale che serviva a riempirla di informazioni e a distribuirla al pubblico. Il giornale si comprava in edicola e solo allora si poteva leggere, per poi passarlo, in media ad altre tre-cinque persone. Nelle informazioni televisive, la scarsità era soprattutto nel modello produttivo, estremamente costoso, dunque di per se una barriera all’entrata, e nel modello di business pubblicitario, molto concentrato e difficile da penetrare per gli outsider. La scarsità e le barriere alla concorrenza erano la stessa cosa.
Nel mondo digitale, internettiano, la produzione può costare da “relativamente poco” a “molto” (in ragione delle decisioni dei produttori) ma la distribuzione e la riproduzione non costa praticamente nulla: è a carico del destinatario che a sua volta la percepisce non come un costo del singolo elemento informativo ma come un costo generale di accesso a internet. La scarsità tradizionale definita dai mezzi di trasmissione è scomparsa.
Lo spazio limitato su cui poter mettere delle inserzioni pubblicitarie si è ampliato virtualmente all’infinito, come lo spazio per pubblicare. Il numero di alternative a sua volta si moltiplica. E il pubblico non è più tanto separato dagli autori. La differenza non è più segnata da una barriera materiale, ma da una differenza culturale. I professionisti e il pubblico attivo dell’informazione sono diversi per il loro ruolo non per lo strumento che usano per scrivere.
Le persone hanno cominciato a scrivere. Si esprimono, si connettono, si riconoscono, si informano reciprocamente, solidarizzano, polemizzano, criticano, verificano. Tra loro ci sono veri esperti e normali cittadini. Tutti condividono. E competono nello stesso tempo. Creando uno spazio dell’informazione molto più ampio. L’informazione diventa abbondante. Gli informatori non scarseggiano. Per i giornalisti è un cambiamento fondamentale. Un tempo i giornalisti erano definiti come la categoria di professionisti che scrivono sui giornali, mentre i giornali erano quei mezzi di informazione che sono scritti da giornalisti: quella tautologia non regge più, in un contesto nel quale i luoghi sui quali fare informazione e i soggetti che la fanno non scarseggiano più. La nuova definizione dei giornalisti va cercata in questo nuovo contesto.
In un contesto nel quale l’informazione è tanto abbondante da far parlare di information overload, il tema centrale è il sistema dei filtri che consentono a ciascuno di selezionare ciò che è importante sapere da ciò che è rumore di fondo. La rete ha bisogno di ruoli specializzati per filtrare i flussi di informazione e connettere reti diverse tra loro (reti digitali, reti sociali, reti territoriali, per esempio). Sicché, in questo nuovo contesto, il ruolo professionale non è più definito dalla posizione (in un certo senso privilegiata) che il professionista occupa nella mediasfera, poiché detiene i mezzi scarsi con i quali si produce e diffonde l’informazione: in questo nuovo contesto, il ruolo professionale è definito dal servizio che svolge a vantaggio della comunità. Vediamo meglio.
La relazione della scarsità e dell’abbondanza si è rovesciata. Oggi l’informazione e i mezzi per fruirne sono abbondanti, mentre scarseggia la domanda. O meglio la scarsità che conta è nelle persone che devono fruire dell’informazione: scarseggiano il tempo da dedicare alle attività informative, l’attenzione da dedicare all’informazione, gli spazi relazionali nei quali le informazioni prendono vita e importanza.
In un certo senso, si può dire che una volta i giornalisti scrivevano sulla carta. Oggi scrivono sul tempo delle persone, se queste dedicano loro attenzione tanto da riportare le informazioni ricevute nel discorso che gestiscono con le altre persone con le quali sono in relazione.
Tutti i mezzi sono buoni per ottenere questo risultato, sicché si parla di crossmedialità: le storie da raccontare sono sempre le stesse ma possono essere proposte attraverso qualunque medium, per poter servire il pubblico che sceglie i tempi da dedicare all’informazione professionale durante la sua giornata; vanno proposte con il linguaggio e le formule adeguate a suscitare l’attenzione del pubblico sui diversi mezzi; vanno pensate in modo che diventino valore immateriale da immettere nei flussi relazionali che le persone coltivano per stare in comunità.
I giornali e i giornalisti non vengono dunque più classificati per mezzo di comunicazione che usano (carta, tv, radio, ecc): vengono riclassificati per il loro scopo sociale. Intrattenimento e socializzazione, conoscenze pratiche per la vita quotidiana, ricerca profonda di conoscenze rare destinate allo sviluppo della società e alle decisioni collettive che deve operare. E così via.
La questione dei modelli di business è investita in pieno da questo cambiamento. Quando la scarsità era concentrata sul lato dell’offerta, il prezzo dell’accesso all’informazione era definito dall’offerta e questa si poteva strutturare in grandi organizzazioni editoriali, potenti e ricche. Oggi, la scarsità è dal lato della domanda, e dunque il prezzo è quello che la domanda è in grado o ha volontà di pagare. Il prezzo del biglietto di accesso all’informazione può essere pagato solo se il valore cui consente di accedere si sente ben chiaro e forte. Il prezzo dello spazio pubblicitario può essere pagato se effettivamente il mezzo che lo offre conquista il tempo, l’attenzione e le relazioni, con sempre minore imprecisione statistica. La comunità decide di contribuire all’informazione, con il proprio tempo, le proprie conoscenze, il proprio sostegno finanziario, se chi offre professionalmente l’informazione si pone effettivamente e concretamente al servizio della comunità stessa. L’informazione non è più tanto prodotto, quanto servizio.
Non per nulla il prezzo dei giornali e della pubblicità sembrano a malapena bastare a pagare per l’informazione di base, mentre la ricerca e le inchieste sembrano sempre meno finanziabili. E non per niente la beneficenza, il sostegno comunitario volontario, la partecipazione del pubblico attivo, entrano in gioco a finanziare e alimentare la ricerca di informazioni che l’editoria tradizionale fatica ormai a pagare.
Il caso eccellente di Propublica, con il suo recentissimo Pulizter per una storia sul servizio ospedaliero durante la crisi determinata dall’uragano Katrina, è arrivato a dimostrare quanto ormai sia importante il supporto volontario alla ricerca giornalistica. (Il Pulitzer per il giornalismo investigativo del 2010 è stato assegnato a Barbara Laker e Wendy Ruderman del Philadelphia Daily News e a Sheri Fink di ProPublica, in collaborazione con The New York Times Magazine). Ma i premi non sono mancati anche alla megainchiesta sostenuta dal Center for Public Integrity sul contrabbando mondiale di sigarette. E si cominciano a far notare le inchieste finanziate con il sistema di raccolta di fondi comunitari a favore della ricerca giornalistica Spot.us. Del resto, queste soluzioni si stanno rapidamente diffondendo in tutto il mondo occidentale. Sulla base dell’idea che la ricerca giornalistica, l’inchiesta, sia una necessità per la comunità, che non possa che essere svolta con il metodo giornalistico, e che la comunità dunque sia disposta a finanziarla. A Trento, è nata la Fondazione Ahref, proprio per studiare e favorire questa dinamica in Italia.
Tutto questo suppone una maggiore conoscenza della dimensione che appunto definisce le scarsità fondamentali, domanda informazione e dichiara il successo o l’insuccesso delle proposte informative professionali offerte.
Il pubblico e la comunità che l’informazione è chiamata a servire non è più l’insieme indefinito della massa di consumatori medi cui si faceva riferimento all’epoca dell’industrializzazione accelerata. E non è più neppure un aggregato di target, di gruppi di consumatori definiti da interessi o caratteri socio-economici comuni. Chi vorrebbe oggi essere servito da uno che ti chiama target, bersaglio? In realtà, il contenuto è re, ma l’informazione è una repubblica, e i vecchi nobili hanno senso solo se sono al servizio della comunità. Che va dunque conosciuta.
La comunità ha essenzialmente bisogno di esplorare, conoscere ed essere informata sullo spazio comune nel quale vive perché collettivamente – come specie e come organizzazione sociale – ottiene risultati molto migliori che come aggregato di individui. Non per nulla, se è la comunità che va servita, i mezzi di informazione si adattano alle sue caratteristiche.
Una società relativamente stabile come quella contadina aveva sistemi di informazione molto articolati. Un broadcast basato su messaqgi standard, facilissimi da interpretare, utili e gestiti da centrali di potere molto rare, era quello dei campanili che scandivano la giornata e avvertivano dei fatti principali della comunità: le feste, le morti, i pericoli imminenti. Per il resto, l’informazione viaggiava con il sistema del passaparola e con l’incontro fortuito con viaggiatori, mercanti, teatranti, che raccontavano le storie di posti lontani. Il sistema dell’informazione contadino supponeva una società relativamente stabile e messaggi relativamente ripetitivi.
La società industriale non ha fatto che portare al largo consumo principi sostanzialmente analoghi: messaggi semplici da decodificare, buoni per la media dei consumatori, definiti appunto massa, concetto che definiva anche i mezzi di comunicazione che li servivano. La società era abbastanza stabile potersi permettere i giornali per l’élite e per tutte le varie categorie professionali o sociali, in modo tale da garantire una certa continuità economica e prevedibilità di business.
Ma la frammentazione dei ruoli sociali tradizionali e l’avvento dell’epoca della conoscenza impongono un cambio di passo clamoroso nel sistema editoriale. Ed è questa la vera dinamica da servire, per comprendere eventualmente anche il nuovo ruolo del giornalismo.
Ma un punto resta fermo: la collettività ha bisogno di uno spazio comune sul quale sviluppare le sue dinamiche di collaborazione, concorrenza e consapevolezza prospettica. I concetti in voga un tempo di “opinione pubblica” e “coscienza comune” oggi sembrano rimpiazzati da “commons” e “intelligenza collettiva”. Ma il loro scopo è analogo. Le forme devono cambiare, il che è precisamente il punto.
L’agenda comune
Una società si muove in modo diverso da una somma di individui. Anzi, è probabile che la specie umana abbia trovato nei modi di coordinamento degli individui una sua forma evolutiva specifica.
L’ipotesi dell’esistenza di un’intelligenza collettiva emerge dall’osservazione: gruppi di individui che si comportano collettivamente in un modo che sembra intelligente, nel senso che affrontano in modo coordinato situazioni e problemi nuovi, imparano a risolverli e applicano la loro conoscenza comune per adattarsi ai mutamenti del contesto. Del resto, una dimensione collettiva dell’intelligenza è stata immaginata in passato da diversi autori: dal World Brain di H.G. Wells, del 1937, alla Intelligence collective di Pierre Lévy, del 1997. Niente di nuovo, dicono al Center for collective intelligence (Cci) dell’Mit, salvo per un particolare: il web.
I gruppi di individui della specie umana hanno imparato a coordinarsi sulla base di un sapere e di una capacità di ragionare comune fin dai tempi in cui la sopravvivenza dipendeva dalla caccia. E gli strumenti per condividere la conoscenza non sono mai mancati e sono migliorati nel tempo. Ma il web – con l’enormità delle informazioni che contiene e la velocità di innovazione che lo caratterizza – dà l’impressione di aver aggiunto qualcosa che resta ancora da comprendere. I ricercatori del Cci dell’Mit, guidati da Thomas W. Malone, hanno lanciato diversi progetti: dal web delle previsioni collettive al sistema per la condivisione di conoscenze mediche. L’idea è creare piattaforme che consentano a gruppi di persone connesse a computer di agire più intelligentemente dei gruppi privi di computer e dei computer privi di persone. La sperimentazione è in corso, ma gli esempi cui i ricercatori fanno riferimento sono già sotto gli occhi di tutti: non solo e non tanto Google e Wikipedia, quanto piattaforme tipo InnoCentive. Quest’ultima è una soluzione creata dalla Eli Lilly e usata da aziende come Boeing, DuPont e Procter & Gamble per porre problemi scientifici a una comunità di persone connesse, incentivandole anche con denaro a tentare di risolverli collaborando e mettendo in comune i loro saperi. Si tratta in sostanza di piattaforme complesse capaci di aggregare le persone, facilitarle nell’interazione, concentrarne l’attenzione intorno a un obiettivo, coordinarne le forze e motivarle con sistemi incentivanti espliciti. Le prime conclusioni del Cci sembrano indicare che gli obiettivi comuni sono raggiunti meglio se gli incentivi sono più soddisfacenti e se le persone non partecipano per motivi di carriera o per competere con gli altri.
È chiaro che le piattaforme esistenti sul web hanno caratteristiche piuttosto diverse. Wikipedia conta su un obiettivo comune definito dalla metafora dell’enciclopedia, che favorisce un approccio vagamente oggettivo al prodotto, e dall’assenza di competizione tra individui. Facebook sembra avere le caratteristiche opposte. Il motore di Google conta sull’attività di citazione di pagine web svolta da chi, a sua volta, pubblica pagine web: una sorta di sondaggio continuo sulla rilevanza dei contributi disponibili in rete. Queste grandi piattaforme, influiscono sul modo in cui il sapere è distribuito e sui comportamenti di ogni individuo che partecipa alla produzione del sapere.
Se la velocità e la complessità del web sono una grande sfida per chi voglia comprenderne le conseguenze, ancora più difficile è intendere pienamente il modo in cui le opportunità creative e culturali dell’intera internet influiscono sui modi di pensare e agire. Non manca chi le giudica tanto profonde da ipotizzare un salto evolutivo nella specie umana, che porterà allo sviluppo di nuove facoltà cerebrali. Ma di certo già assistiamo a salti antropologici molto significativi: si direbbe, per esempio, che internet nel suo insieme favorisca l’orientamento alla continua ricerca di innovazioni, sottolineando con la morfologia stessa che la caratterizza l’enorme insieme di opportunità che offre.
Se passiamo costituisce il contesto – lo stock di conoscenza – nel quale si inserisce la continua dinamica dell’informazione sull’attualità.
Ogni piattaforma è un polo di attrazione dell’attenzione, del tempo, della conversazione tra le persone. E lo stesso si può dire per i centri di produzione e organizzazione dell’informazione. Con una specificità: l’informazione condivisa serve a prendere decisioni collettive intorno a un’agenda. E non c’è dubbio che questo è il ruolo strategico del sistema dell’informazione.
Non c’è modo di difenderlo nel mondo dei piccoli fratelli di Palahniuk, dove la fiction genera fatti di attualità fittizia più attraenti di quelli dell’attualità reale. Quella fiction serve a generare un’agenda a sua volta fittizia, che a sua volta serve a controllare le decisioni collettive. Un sistema dell’informazione critico e indipendente serve a spezzare la fiction e a mostrare la realtà.
In una società più stabile questo era relativamente facile. Il broadcast della società contadina era il campanile: dava messaggi uguali per tutti, molto facilmente decodificabili, che stabilivano l’agenda quotidiana e avvertivano dei fatti inattesi o fuori dall’ordinario. Le informazioni più puntuali, i commenti e le discussioni avvenivano a livello di chiacchiere in piazza o alla fontana. Il passaparola portava quell’informazione a tutti. E le notizie da lontano arrivavano con i viaggiatori, la posta, i libri… La società era stabile, i messaggi molto strutturati, i media relativamente lineari e sostanzialmente gratuiti. Nella società industriale tutto si è complicato, ma le funzioni sono restate le stesse: e se la televisione è riuscita per un periodo a governare l’agenda con il suo palinsesto, come un campanile, questo è stato tanto più efficiente quanto più la società era leggibile come massa; quando la massa si è frammentata, si è spezzata anche l’agenda e con essa il palinsesto. Per mantenere la sua funzione centrale, la televisione ha alzato i toni e semplificato i messaggi, diventando sofisticatissima nello storytelling. Ma la moltiplicazione delle alternative ha reso tutto più difficile. E la lotta per l’attenzione – insieme alla strategia della disattenzione – ha messo in difficoltà i media meno urlati o meno connessi alle dinamiche sociali. Il passaparola dei media sociali è riuscito a crescere in questo contesto, mentre il sistema dei giornali cartacei si è dimostrato un po’ più debole in questo contesto.
Ma i giornali giocano un ruolo centrale, portando al sistema dell’informazione qualità specifiche piuttosto importanti, almeno quando sono fatti con cura: razionalità di ragionamento, linearità di pensiero, completezza di analisi e di copertura dei fatti. I valori della trasparenza metodologica, della qualità narrativa, dell’identità culturale, sono ancora incarnati meglio che da altri strumenti nei giornali cartacei, che dovranno nel tempo ammettere che la carta è un mezzo costoso e merita di essere usata soprattutto per informazioni preziose. Ma in generale le redazioni si staccheranno dalla carta e diventeranno crossmediali, portando i loro valori di ricerca giornalistica su tutti i media che possono utilizzare. Tendenzialmente, i giornali che si lasceranno asservire a flussi informativi più grandi ne saranno guidati. Quelli che punteranno all’indipendenza culturale (ed economica) cercheranno di mantenere una funzione specifica: contribuire al sistema dell’informazione dal lato razionale, fattuale, medotologicamente avvertito. In questo, dovranno cercare alleati: e probabilmente li troveranno nei piccoli e grandi blog, aggregatori, distributori di traffico e attenzione che a loro volta saranno orientati agli stessi valori. Mentre la loro vera competizione sarà quella dei sistemi alimentatori di fiction, di ideologia, di comunicazione: il populismo non userà mai la ragione, ma il lato maggioritario e irrazionale dei singoli; la convivenza pacifica, illuminata e razionale, avrà invece sempre bisogno di coltivare un’intelligenza collettiva di tipo informato ed empirico.
Che questo produca grandi potenze editoriali dal punto di vista economico non è detto. Ma che tutto questo abbia una funzione decisiva è chiaro.
La soluzione sarà probabilmente un ecosistema nel quale la partecipazione volontaria di migliaia di persone con i loro blog e social network, le piattaforme software più adatte, le qualità culturali e metodologiche delle redazioni giornalistiche professionali, i contributi del non profit, genereranno un sistema di ricerca, sperimentazione e produzione di informazione complesso e capace di stare in piedi svolgendo il suo compito sociale e culturale.
Non è la crisi. E’ l’apertura di una nuova epoca. L’alba di un nuovo giornalismo.