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Segno dei tempi: l'Unità risorge, la redazione no.

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Oreste Pivetta Nessuna valutazione
 

Si è chiusa qualche settimana fa una storia dell’Unità, con la dichiarazione di fallimento, e il 18 marzo se ne aprirà un’altra, dopo l’acquisto della testata da parte dell’avvocato Romeo, editore del Riformista, con il ritorno in edicola della nuova Unità.

A proposito della linea politica, Piero Sansonetti, il direttore, ha promesso combattività, spregiudicatezza, a difesa di principi di giustizia sociale e civile. Un giornale di “sinistra”, si potrebbe concludere (ignorando ancora quali potrebbero essere i rapporti con il Pd di Elly Schlein), un giornale che guarderà appunto a quel mondo di “sinistra”, rimasto “senza voce”, dopo la chiusura della vecchia Unità nel lontano 2017 (ovviamente non si prendono in considerazione social, che pure il loro peso avranno). Potremmo immaginare un quotidiano di poche pagine, di analisi politica, di riflessione, di approfondimento, di dibattito.

L’annuncio della comparsa in edicola (e oggi si deve dire anche “on line”) di un nuovo giornale lo si coglie sempre con grande piacere, perché i giornali sono il segno della vitalità di un paese.

Il piacere è ancora più grande per noi quando il “nuovo giornale” reca appunto il nome del centenario quotidiano che Antonio Gramsci fondò nel 1924. Gramsci lo volle “giornale di sinistra, della sinistra operaia, rimasta fedele al programma e alla lotta della classe operaia, che pubblicherà gli atti e le discussioni del nostro partito, come farà possibilmente anche per gli atti e le discussioni degli anarchici, dei repubblicani, dei sindacalisti e dirà il suo giudizio con tono disinteressato...”.

La storia dell’Unità è storia di questo paese: cent’anni fa e poi via via durante il fascismo, durante la clandestinità, la lotta di Liberazione, la ricostruzione. È storia di questo paese anche nella penosa conclusione, dettata da una crisi generale della politica (e della cultura) e dalla crisi, altrettanto generale, di un sistema dell’informazione incapace di reagire alla sfida delle nuove tecnologie della comunicazione. Doppia crisi che non ha risparmiato nessuno. All’Unità è capitato qualcosa in aggiunta: un deliberato disegno di progressiva liquidazione, quando il giornale aveva ancora una ragion d’essere e aveva pure dei lettori. Evidentemente l’allora leader del Pd, Matteo Renzi, pensava di poterne fare a meno.

La fine del giornale ha lasciato in strada giornalisti e poligrafici, che hanno trovato unico sostegno nella cassa integrazione, sostegno cancellato alla dichiarazione di fallimento.

La rinascita con direttore Sansonetti, che è stato vicedirettore e condirettore della vecchia Unità ed è ora direttore del Riformista, ha lasciato sperare molti nella possibilità di una riassunzione. Sansonetti lo ha promesso per il futuro, se matureranno risultati positivi. Per ora niente. Sansonetti farà l’Unità con i pochi redattori del Riformista, testata il cui destino ancora non si conosce.

Il sindacato dovrà sostenere la sua parte nel difendere i venti tra giornalisti e poligrafici che si sono trovati un quinquennio fa senza lavoro e che senza lavoro si ritrovano adesso, con la sola facoltà di una protesta (il comunicato del Cdr è stato pubblicato in queste pagine), il cui esito è difficile intuire. Ma anche questa è esperienza comune della stampa italiana: al decrescere delle vendite (in quindici anni si è passati da sei milioni a un milione di copie, comprese quelle online) corrisponde il calo drastico dell’occupazione e soprattutto dell’occupazione regolare, contrattualizzata. Mi pare che le grandi redazioni open space sopravvivano ormai solo in qualche raro caso e altrimenti le si possa vedere solo nei film americani tipo “Tutti gli uomini del presidente” o nel più recente “The Post” e che la strategia dell’esternalizzazione sia dilagante: piccole redazioni, che organizzano, e molti collaboratori, grandi e piccoli, alti e bassi (mi riferisco ai compensi, ovviamente). Studiosi di stampa e affini l’avevano previsto trent’anni fa. Il covid ha dato una mano, imponendo il lavoro a domicilio, dissolvendo per via del maledetto virus le redazioni.

Un direttore (non facciamo nomi) disse ai suoi: tutti a casa, ci vediamo una volta al mese al ristorante. La guerra in Ucraina ha mostrato che pure alle prese con un avvenimento di peso universale possono valere gli stessi meccanismi: free lance, cioè collaboratori, pronti a partire e a vendere a buon prezzo i loro servizi. L’algoritmo è alle porte. È una tendenza, è una strada. Perché tenere in piedi costose strutture, quando l’offerta di manodopera è ampia e la manodopera è magari qualificata, volonterosa, ricattabile e soprattutto poco onerosa? Colpa di conti che non tornano, di costi da tagliare a colpi di licenziamenti, pensionamenti, cassa integrazione, onorari miserevoli, colpa di quella crisi che il sistema della informazione e della comunicazione soffre da decenni. Ma può essere che a comandare sia la vocazione di un “centro di comando”, cioè un editore e un editore, che non ama il confronto quotidiano con una redazione, in omaggio ad una semplificazione dei rapporti, in nome dell’efficientismo, quando basta un messaggio per chiedere un articolo, indicare il numero delle righe, pretendere il rispetto di una linea.

Può cadere così la qualità di un lavoro, costretto in solitudine, povero di interlocuzioni. Può cadere soprattutto il valore di una professione, della sua autonomia, della sua (riconosciuta per legge) libertà di informare e di criticare. Mi chiedo se, tanto pressata dai suoi bilanci in rosso, tanto condizionata dalle aspirazioni dei suoi editori, così pronti non tanto a far politica quanto ad assecondare il potere politico, la stampa italiana abbia ancora carte da giocare e come possa e debba “vederle” il nostro sindacato.

 

 

       
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