Oreste Pivetta
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Ma davvero ai giornalisti serve un badante?
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Lo ha detto, tra i primi, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Parole pronunciate durante la cerimonia del Ventaglio, il 27 luglio scorso:
“Vorrei ribadire che è compito dei giornalisti essere certificatori di fronte alla pubblica opinione della corrispondenza tra i fatti e la loro rappresentazione, concorrendo così all’esercizio di democrazia costituito dall’informazione. L’autenticità dell’informazione è affidata, dalle leggi, alla professionalità e alla deontologia di ciascun giornalista. Sarebbe fuorviante - e contraddittorio con le stesse disposizioni costituzionali - immaginare che organismi terzi possano ricevere incarico di certificatori della liceità dei flussi informativi”.
Giusto ricordare che Mattarella aveva anche precisato che “il contratto di lavoro dei giornalisti – scaduto ormai da anni - costituisce il primo elemento dell’autonomia della categoria”. Ma il punto è lì, alla possibilità che “organismi terzi possano ricevere incarico di certificatori della liceità dei flussi informativi”. Possibilità che potrebbe diventare un obbligo se non cambierà quanto scritto in poche righe nel lungo dpcm, decreto della presidenza del consiglio, del governo quindi, pubblicato in Gazzetta Ufficiale proprio il 27 luglio, dedicato appunto al tema della informazione e in primo luogo al ruolo delle agenzie di stampa, definite “fonte primaria di informazione”. Anche il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha protestato: in un ordine del giorno votato all’unanimità ha chiesto semplicemente la cancellazione di quelle righe, di una disposizione cioè “fortemente lesiva della libertà di informazione e delle prerogative deontologiche del giornalista a cui spetta, come prescrive la legge, la verifica delle notizie e la garanzia della loro autenticità, in piena autonomia” (reclamando anche un incontro urgente con il sottosegretario all’editoria Alberto Barachini, il quale peraltro non si è negato: l’incontro dovrebbe cadere proprio oggi, 28 settembre).
Il decreto, varato dal consiglio dei ministri dell’11 luglio scorso, in dieci articoli, prevede, riassumendo, che, seguendo una procedura negoziata, vengano riconosciuti contributi triennali alle agenzie, che rispettino determinati requisiti (con un corpo redazionale, ad esempio, di cinquanta giornalisti assunti a tempo indeterminato), requisiti pretesi per figurare in un elenco “speciale” (Elenco di rilevanza nazionale delle agenzie di stampa). Ma tra i “requisiti” compare anche “l'istituzione... della figura del Garante della informazione avente la funzione di assicurare la qualità delle informazioni ed impedire la diffusione di fake news, avente provata professionalità, esperienza, imparzialità e senza una pregressa appartenenza all'Agenzia presso cui opera...”.
Così all’articolo 2, comma f. Insomma, ti darò i soldi se stai dentro quell’elenco e stai dentro quell’elenco se rispetti determinati vincoli e ti tieni in casa un certo signor Garante anti fake news. Non si dice molto altro del signor Garante: solo che non deve essere in nessun caso legato alla redazione dell’agenzia, niente nel suo passato che faccia riferimento alla agenzia che dovrà ospitarlo. Nient’altro. Niente che riconosca che le cosiddette fake news sono in primo luogo creature di blog e di altre fonti informatiche. Niente che chiarisca i contorni di una figura, che appare come una sorta di “commissario politico” in nome del governo, cioè di chi deve decidere i finanziamenti alle medesime agenzie.
Diciamo che lo “scambio” proposto inquieta: ecco i soldi, ma ti prendi con i soldi anche il signor Garante. Garante a nome di chi? Di un tribunale speciale? Di un superiore signor Censore? Chi lo paga, perché l’impegno sarebbe assai gravoso?
Può essere stato uno scivolone, l’infortunio di un ignoto scrivano del decreto magari animato dalla buona intenzione della lotta alle “notizie false” che imperversano, in grande e in piccolo, nel nostro universo della comunicazione: tra covid e Ucraina continuiamo a sentirne di tutti i colori. Ma Alberto Barachini, giornalista e senatore di FI, sottosegretario alla presidenza del consiglio, non è certo uno sprovveduto e chi soffre di nostalgia per l’agenzia Stefani sta altrove, magari ben sistemato tra i banchi dell’esecutivo. Singolare che Barachini, in un incontro pubblico sullo stato della stampa, abbia ridotto la questione all’obbligo per le agenzie di “dotarsi di strumenti autonomi di valutazione del loro lavoro rispetto all’informazione e alla disinformazione”.
Formulazione un po’ ambigua, dimenticando peraltro che nelle agenzie esistono direttori e vice, capiredattori, capiservizio, redattori, una lunga catena di controllo, che già provvede (lasciamo stare le condizioni di lavoro: l’aveva ricordato Mattarella citando il vuoto contrattuale), esistono i codici deontologici ed esistono pure le sanzioni per chi trasgredisce. Una volta si diceva: peggio la pezza del buco. Ma di pezza si tratta, forse l’avvio di un ripensamento, non facile perché qualcuno potrebbe rimetterci la faccia...