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Ordine: aggiornato l'accesso, ma la "riforma" latita ...

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Oreste Pivetta Nessuna valutazione
 

Il testo licenziato dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti il 28 novembre a proposito di “accesso” (per intero: “Criteri interpretativi dell’art.34 legge 69/1963 sull’iscrizione al registro dei praticanti”) non è piaciuto a tutti (non posso dire “a quanti”: certo è stato approvato a larga maggioranza).

Era prevedibile: già la prima versione aveva mosso l’ostilità di alcuni (la minoranza del consiglio che fa capo a Verna, Cerrato, Franchina, malgrado i suoi rappresentanti in seno alla commissione giuridica avessero contribuito alla stesura e quindi alla presentazione di quel documento), al punto di presentare un ricorso al ministero di Grazia e Giustizia. Il quale aveva accolto il ricorso, riconoscendo però la fondatezza delle premesse di quei nuovi “criteri interpretativi”.

Riconoscendo cioè che l’art.34 (diciotto mesi di praticantato dentro una redazione gremita di professionisti, lettera del direttore che ufficializza la pratica di lavoro giornalistico, prima di potersi misurare con l’esame) poteva riflettere la realtà di sessanta anni fa, non certo quella d’oggi, che sopravvive di testate in crisi, corpi sempre più smilzi, una miriade di collaboratori senza alcun vincolo, impegnati anche sui fronti più duri (vedi la guerra in Ucraina), una infinità di iniziative online, che poco hanno a che fare con le sontuose “testate registrate” di un tempo.

Sessant’anni fa. Lo hanno riconosciuto i funzionari del ministero che hanno dato il loro contributo a un testo molto più sobrio, lo si potrebbe definire “liberale” , semplificato (lo si può leggere per intero nel sito dell’Ordine nazionale), che vincola l’iscrizione del praticante alla dimostrazione di una attività giornalistica e di una retribuzione” anche senza il vincolo della subordinazione, con la percezione di un reddito professionale equiparabile al minimo tabellare lordo previsto per il praticante con meno di dodici mesi di servizio come stabilito dal Contratto nazionale di lavoro giornalistico, ecc.”.

Seguiranno, accolta la domanda, la verifica in progress del lavoro, all’attenzione di un tutor, la partecipazione a cicli “istituzionali” di formazione, la verifica dei passi compiuti da parte del presidente dell’Ordine regionale e infine la dichiarazione di compiuta pratica. In attesa della prova di idoneità professionale “è prevista la frequenza di un corso di preparazione...”. Si cerca insomma di fissare un percorso chiaro, che si fonda su parametri obiettivi, che dovrebbe lasciare poco spazio a applicazioni magari arbitrarie, magari familiari, un percorso amministrativamente chiaro ma anche di serio apprendimento...

Il primo tra i contestatori è stato Vittorio Roidi, giornalista celebre, già presidente della Fnsi, che, in un rapido articolo su Professione Reporter, non ha esitato a definire il provvedimento prima inspiegabile (all’inizio) e poi stupefacente (alla terza riga), confondendo un intervento che potremmo definire “emergenziale”, determinato dalla malvagità dei tempi, con la “riforma”, che i giornalisti inseguono da trent’anni almeno.

Il provvedimento non è la riforma, che dovrà prima o poi scrivere il Parlamento, magari valutando le proposte, i suggerimenti, le raccomandazioni dell’Ordine, che sul tema sta lavorando da anni ed anche in questi giorni, magari a partire, tanto per fare un esempio, dal vincolo della laurea (aggiornando quindi la legge istitutiva del 1963), ragionando su formazione, deontologia, esclusività, pubblicità, qualità dell’esame di Stato, eccetera eccetera.

A Roidi, con lo sguardo al passato, una cosa sta a cuore: la testata, perché lì si impara, nella pratica delle grandi redazioni. Bello. Come ai vecchi tempi. Ma Roidi sa benissimo che l’assunzione come praticante in una “testata”, che sia il Corriere o Repubblica o la Rai, è un rara benedizione del Signore, dopo anni o decenni di tagli, mentre tantissimi aspiranti gravitano nell’incertezza inseguendo una collaborazione a prezzi stracciati. Quindi se non c’è la “testata” il rimedio per Roidi è presto trovato: le scuole di giornalismo. Ottime, magari, le scuole di giornalismo, vigilate dall’Ordine. Peccato che costino: il praticante che aspira all’esame e al tesserino professionale dovrà pagare tra i cinquemila e i diecimila euro di tassa all’anno, più, ovviamente, vitto e alloggio. Per due anni: con quali prospettive? Vogliamo una professione per ricchi? Pare di sì... Ci sono le borse di studio, si obietterà. Vogliamo allora fondare un sistema professionale sulle borse di studio? Speriamo di no.

Torniamo da capo: si sarà capito che i “criteri interpretativi” non sono la riforma, danno una mano di razionalità, di severità, di trasparenza agli iter in campo oggi (vedi praticantato d’ufficio), guardano all’esistente assai gramo, illuminando qualche possibile passo per il futuro, cioè per l’attesa riforma, che tra le varie cose dovrà occuparsi proprio di questo, cioè di accesso, garantendo, nel rigore, doveri e diritti. Primo punto, come si diceva, la laurea e quindi una via universitaria che dalla “triennale” di gran forza culturale introduca ad un ciclo specialistico che formi, sul piano delle regole, delle modalità, degli strumenti, il nuovo professionista.

Non sarà la soluzione di tutti i problemi, di una parte sì, il resto tocca agli altri: al governo, agli editori, al sindacato unitario, alla volontà di rovesciare un andamento in perdita continua. Con quali conseguenze per i lavoratori si vede, con quali conseguenze per i cittadini e per la democrazia è facile constatare.

 

       
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