Maria Teresa Manuelli
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- Deontologico
Cara presidente e cara stampa, la lingua non è neutra
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No, la lingua non è neutra. Nemmeno l’italiano, come vorrebbero alcuni nostalgici dei retaggi latini nel nostro idioma.
E non è questione di grammatica, perché lo abbiamo imparato dalle elementari che la lingua italiana non ha il neutro, neppure “l’uso del neutro”, come sostengono alcuni (“io lo uso al neutro”, cioè?). Lo sappiamo più o meno dall’età dei 10 anni che è una lingua binaria e che i nomi femminili vogliono l’articolo “la”. Lo dice la grammatica che quando donna si dice “la” presidente e non “il” presidente. Eppure…
Eppure sull’uso del femminile per alte cariche ancora ci si straccia le vesti e si grida all’attentato di lesa maestà. L’unico argomento altamente divisivo. Nei corsi che tengo a colleghi e colleghe per la Formazione Continua per conto di Gi.U.Li.A. tratto diversi argomenti sulla discriminazione delle donne: la violenza degli uomini sulle donne, e tutti annuiscono; gli stereotipi, e tutti annuiscono, sulla grammatica, invece, si scatena il finimondo! Un argomento che non si può toccare. Ma direste mai di una donna “il supplente”, “il ripetente”, “il concorrente”? Certo che no, è un errore di grammatica. E la questione non dovrebbe nemmeno porsi. Ma si pone, da decenni ormai. Se lo si fa è per ragioni politiche.
Non è un caso se la prima nota uscita dal Gabinetto di Presidenza è stata proprio per rivendicare un articolo determinativo: IL. Due lettere che racchiudono un intero manifesto.
Da tempo, infatti, la “questione della lingua” ha assunto una portata non linguistica: l’autodeterminazione femminile, l’uscire dal silenzio, la rivendicazione di un ruolo e di un potere. E sostenere o meno l’uso del femminile nel linguaggio ha il sapore di schieramento politico. Nel corso dei decenni, direi da più o meno da Alma Sabatini in poi, nominare le donne al femminile, che è la cosa che la nostra lingua fa tradizionalmente – vedi Dante che già usava “avvocata” e “ministra” nella Divina Commedia - è diventata una cosa di sinistra. Quindi, se “ministra” è di sinistra, allora dirsi “ministro” anche come donna è diventata una cosa della destra. E qui il piano della discussione si sposta dalla questione morfologica o dalla questione linguistica, sul piano di rivendicazione politica e di posizionamento.
Lo sa bene Giorgia Meloni, che non ha certo complessi di inferiorità rispetto agli uomini o il timore che non le venga riconosciuta l’autorevolezza – come adducono quale scusa molte direttrici, ingegnere o avvocate quando chiedono di essere nominate al maschile.
Il suo è un manifesto politico e non a caso è uscita quella nota su “IL Presidente” per prima. Meloni è donna di politica e come tale agisce. E lo stravolgimento linguistico – che rende anche un po’ ridicole le comunicazioni “il Presidente Meloni è uscita…” – glielo si può concedere ai fini politici. Non dimentichiamo che lei è a capo di un partito che a luglio di quest'anno, grazie al voto segreto richiesto al Senato, non ha fatto passare l'emendamento per l'uso di un linguaggio di genere nelle comunicazioni istituzionali.
Quello che non si può tollerare, invece, è la prona sottomissione di istituzioni, anche talune che si definiscono paladine delle questioni linguistiche, e soprattutto di certa stampa. No, la stampa non è ammissibile. Noi che della chiarezza e comprensione di linguaggio facciamo la nostra professione, noi che “informiamo” nel senso più letterale, ovvero “diamo forma” alla realtà con le nostre parole. Eppure, subito pronti ad annuire agli ordini dall’alto: se lei chiede di essere chiamata così… Un ragionamento che è accettabile solo in caso di disforia di genere, ma non è questo il caso.
E se lei domani chiedesse di abolire i congiuntivi o di usare solo l’alfabeto farfallino, cosa faremo? Scrfivferfemfo tfuttfo cfosfì?
Lasciamo i politici fare politica, il mestiere dei giornalisti è fare informazione, ovvero raccontare i fatti e la realtà attraverso le parole. E la realtà in questo caso è una donna alla presidenza del consiglio: la presidente. Chi sostiene il contrario o è molto ignorante o è in mala fede. Nel primo caso, ristudiamo la grammatica. Nel secondo, come giornalisti spogliamoci dalle ideologie e ricominciamo a nominare la realtà, almeno noi, in modo corretto e laico.
Come ci ha lasciato l’insegnamento del grande Sergio Lepri, ex direttore dell’Ansa, che non ebbe timor a scontrarsi anche con Nilde Iotti e Susanna Agnelli che volevano essere chiamate “il presidente” e “il senatore” e non “la presidente” e “la senatrice”, come invece lui fece, anticipando di molti anni questa lunga battaglia.
A chi infine – la presidente del consiglio compresa, come nel suo ultimo post – sostiene che le battaglie da condurre sono altre, rispondiamo che la questione linguistica non può essere un ornamento per noi, ma sta alla base delle discriminazioni e dell'uso costante di stereotipi di genere, che creano terreno fertile alla violenza maschile contro le donne, in tutte le sue forme più crude e cruenti che siamo solite vedere sui media.
La lingua, le parole che scegliamo hanno a che fare con l’identità delle persone, raccontano chi siamo, la nostra società, il modo in cui si evolve o regredisce. Quelle parole siamo noi. Questo è il nostro compito.