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Turchia 1- Eravamo quattro amici al bar


attentatoOltre 150 le testate di giornali, radio, televisioni, agenzie chiuse. Centinaia ormai i giornalisti arrestati. Chiuse anche case editrici e libri mandati al rogo (ricorda niente?). Denunciate torture e intimidazioni unite a proposte di collaborazione. Uno stillicidio quotidiano: la banale - banale in questo contesto - vicenda di “quattro amici al bar” che raccontiamo più avanti dimostra come sia rischioso persino fare il cronista. Questo è diventata la Turchia, che ogni giorno rinforza il muro che imprigiona l’informazione e la libertà di pensiero, reiterando la minaccia di pena di morte “se il popolo lo vuole” (cui si aggiungono nuove promesse di atti “peggiori della morte”). Quotidianamente si ripetono manifestazioni in tutta Europa: le proteste sotto le ambasciate turche, fra cui l’impegno della Fnsi, la mobilitazione internazionale lanciata dai sindacati internazionale ed europeo dei giornalisti (Ifj e Efj)... Ammirevole il coraggio con cui molti giornalisti turchi nonostante i rischi continuano a testimoniare la repressione di Recep Tayyip Erdogan che ormai, ad un mese dal fallito golpe, è diventata una repressione “preventiva”, che opera su sospetti e delazioni. Come spiegano alcuni colleghi, saliti a Bruxelles a ringraziare chi si è battuto per la loro liberazione e a raccontare come, senza queste manifestazioni, loro e molti altri “sarebbero stati trattati peggio e imprigionati più a lungo”. Era dunque il 10 agosto quando, nella provincia anatolica sudorientale di Diyarbakir, Hasan Akbas, Fırat Topal e Serpil Berk della testata Evrensel e 'Sertaç Kayar della Reuters sono stati testimoni involontari di un attentato, accorrendo tra i primi sulla scena. Il quartetto si trovava casualmente in un bar nelle vicinanze dell’esplosione, accanto al famoso Ponte Dicle. “Ci siamo precipitati, come qualsiasi altro giornalista avrebbe fatto, abbiamo scattato le foto al luogo e ai feriti e le abbiamo subito inviate in redazione, quindi abbiamo cercato di raggiungere l’epicentro”. È bastato perché la polizia li ritenesse sospetti, li arrestasse e li trattenesse per tre giorni fra minacce e violenze. Intervallate con la proposta, racconta Fırat Topal (corrispondente di Evrensel e di Hayatın Sesi TV di Diyarbakır), di diventare informatori. E se non fossero intervenuti i sindacati nazionali ed europei sarebbero ancora in galera senza processo. La collega Serpil Berk (corrispondente di Evrensel e di Hayatın Sesi TV di Diyarbakır) testimonia come i poliziotti avessero aggravato gli abusi fisici e verbali non appena saputo che erano giornalisti. Accatastati su un carro armato, faccia a terra e ammanettati, erano stati condotti nella sezione antiterrorismo, interrogati e poi trattenuti in quelle condizioni tutta la notte. “Guarda il pavimento – urlavano - e a chi si lamenta spariamo in testa”. Le celle erano piene così Serpil è stata poi portata con altre donne al palazzetto dello sport (anche questo non vi risveglia ricordi argentini?). Analogo il racconto di Hasan Akbaş (corrispondente di Evrensel e di Hayatın Sesi TV Diyarbakır) ma ancora più inquietante per le esplicite minacce ricevute dopo il brutale interrogatorio: “Sei di Ankara, cosa ci fai qui? Qui siamo a Diyarbakir dove sono state trovate persone uccise con un colpo alla nuca dopo un’irruzione nelle loro case… Se è quello che vuoi, continua a fare giornalismo qui”. Poi l’avevano buttato in una cella senza aria, sempre in piedi con altre 70 persone. Ma neanche i medici si erano comportati bene perché, portato in ospedale dalla polizia dopo il “trattamento”, Hasanvuoi, pieno di lividi e d’infezioni, si è sentito dire “Niente di importante”. Sertaç Kayar (Freelance / Reuters) racconta: “ Eravamo talmente vicini al luogo dell'esplosione che ne siamo stati vittime anche noi, ma ciononostante abbiamo pensato solo a dare le notizie il prima possibile. Ma la polizia ha fermato l’auto, sequestrato subito i cellulari impedendoci di svolgere il lavoro, sottoposti a insulti, pestaggi e minacce di morte, tenuti per ore in ginocchio con le mani legate dietro la schiena. Alternando minacce di far saltare la testa a proposte di diventare loro informatori; e al rifiuto spogliati di tutto, abiti, telefoni, macchine fotografiche, modem”.
       
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