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Se la professione non riesce a risollevarsi da sola...


di Oreste Pivetta 151897Non passeranno alla storia i tre giorni dell’ultimo Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, ma qualcuno tra i cento e più consiglieri dell’Ordine dovrebbe ricordarli e qualcuno li ricorderà nel segno di una sconfitta: sconfitta (al di là dei numeri di una vittoria che definire striminzita sarebbe poco: sarebbe bastato un consigliere a volgere in parità il risultato, senza considerare le dichiarazioni di “non voto” che equivalevano con evidenza assoluta ad una bocciatura) che così suona per la maggioranza composita, appiccicaticcia, confusa negli intenti e nelle motivazioni, addirittura “campanilistica” (sembrerà assurdo, ma ancora la si definisce in alcune sue componenti per appartenenze comunali, i napoletani di questo, i torinesi di quest’altro) che governa l’Ordine, sconfitta che allo stesso modo suona per l’Ordine e per i giornalisti (attraverso la loro rappresentanza) incapaci non tanto di darsi una riforma (quella prima o poi dovrà scriverla il parlamento italiano) quanto di individuare almeno alcune linee comuni di riforma, in una stagione come questa di crisi e di trasformazione tragicamente dolorose. Non consola pensare che le cose vanno così pure altrove, ad esempio in un paese come il nostro che aspetta da anni una legge elettorale. Da anni appunto: il porcellum è ancora giovane, mentre l’Ordine dei giornalisti è fermo alla legge istitutiva del 1963, cinquant’anni. Era una legge che doveva alla nascita già mostrare qualche acciacco, se è vero che solo pochi mesi dopo si doveva riflettere sulla sua modifica. A rileggere la storia oggi, si potrebbe dedurre che quella legge, istituendo il doppio elenco pubblicisti-professionisti, guardasse molto al passato novecentesco prebellico delle “grandi firme”, della letteratura che si concedeva alla stampa quotidiana, degli “elzeviri”, più che al presente di una società italiana che usciva dal miracolo economico, viveva la “congiuntura”, sperimentava il primo centro sinistra, con un dinamismo che gli anni successivi non avrebbero smentito. Mezzo secolo dopo, il tentativo chiaro di lasciar tutto come prima, gattopardesco appunto, perseguito con diabolica e autolesionista ostinazione, è andato a segno. Per due voti, come si è detto. Per difendere i più deboli, i precari, i giovani in mezzo a una strada, si è recitato con enfasi retorica. Per l’immobilità, invece, per confermare modesti equilibri di un modesto potere, che poco o niente possono riguardare la professione e la sua caduta. Un risultato amaro di fronte ai disastri sociali di questi anni, di fronte al progressivo impoverimento della professione, disastri e impoverimento evocati con demagogica ripetitività. Quante storie di giovani cronisti precari, sfruttati, malpagati, sono state ritratte in tanti interventi. Ma ci si dovrebbe chiedere quante risposte a quei giovani la proposta “vincente” potrebbe dare, quante risposte potrebbe offrire l’emendamento vittorioso sui numeri del consiglio, sulla distribuzione cioè dei posti tra professionisti e pubblicisti, emendamento che rimandava ogni decisione ad un successivo regolamento, ad una nuova contrattazione, facendo saltare il “patto” siglato nel gruppo di lavoro, un compromesso – è ovvio – dopo una lunga mediazione, motivando la reazione e la dichiarazione di “non voto” dei due “saggi” Verna e Vitucci. Forse una risposta la si sarebbe potuta leggere nella proposta di “Liberiamo l’informazione” e di “Contrordine”, “opposizione” nel consiglio dell’Ordine, una proposta che separa (cito pressoché integralmente quanto riassunto dal nostro Pino Rea su “Lsdi”) l’aspetto della abilitazione alla professione da quello del suo esercizio effettivo, la formazione dal mercato del lavoro, che distingue la sfera della costruzione dei saperi professionali, della deontologia e della produzione di cultura, affidata all’Ordine, da quella del lavoro, regolata dal conflitto editori sindacato, togliendo agli editori il potere di decidere chi sarà giornalista, spostandolo in mani “pubbliche” (università, scuole, Ordine) in grado di costruire profili professionali adeguati alla complessità del nuovo sistema dell’informazione. Una proposta che scardina la vecchia divisione professionisti-pubblicisti, che davvero ha aperto e apre la strada alle più diverse forme di sfruttamento, esponendo il più debole, il pubblicista, al ricatto degli editori, creando invece una figura unica di giornalista, qualificato da una formazione, abilitato da un esame (prevedendo ovviamente congrui periodi di transizione, indicando in un esame di idoneità l’unico obbligo per il passaggio di un pubblicista tra i professionisti). Un solo Albo, dunque, per un Ordine che si fa garante della formazione, della cultura, della preparazione, dell’idoneità dei suoi “abilitati”, un Ordine che, affondati nel mare del mercato (almeno europeo o addirittura globale: non dimentichiamolo) norme protezionistiche e vincoli corporativi, individua nella “professionalità” l’attrezzo più idoneo per sopravvivere e magari per vivere. Una votazione voluta dal presidente Iacopino sui “princìpi” delle due proposte premiava quella “istituzionale”. Una ventina soltanto i voti di scarto. Un segnale, forse. Il resto è avvenuto dopo, con la presentazione degli emendamenti: la maggioranza, con esemplare tenacia, ha provveduto a smantellare il progetto che aveva nella sua impostazione generale approvato. Via ad esempio la “verifica/ esame/colloquio” (proprio così), una novità per l’iscrizione all’elenco dei pubblicisti dopo un corso su etica professionale, norme giuridiche attinenti il giornalismo, norme amministrative e penali concernenti la stampa, via il rapporto di tre a due tra professionisti e professionisti (ne abbiamo scritto), addirittura si tentava di trasformare la “drastica riduzione del numero dei componenti” del consiglio nazionale (centocinquanta per ora, ma in crescita, crescendo il numero degli iscritti all’Ordine) in una “consistente riduzione”. Una guerriglia continua ad ogni articolo. Restava in piedi la distinzione professionisti/pubblicisti, restavano in piedi i due elenchi. Il resto lo abbiamo raccontato, fino al voto finale che certificava l’incapacità di un Ordine professionale, nelle mani di chi esercita occasionalmente la professione o non la esercita del tutto, a immaginare, attraverso una riforma, un futuro possibile. La via sarebbe quella di ricominciare da capo. Non mi risulta che il presidente Iacopino l’abbia almeno per ora presa in considerazione. Le due ipotesi in campo sono evidentemente inconciliabili: non è questione di articoli, ma di cultura che le ispira. Ricominciare da capo significa provare a costruire più che una terza via, cioè una via di mezzo, un modo per restituire l’Ordine ai giornalisti, professionisti e pubblicisti, un modo che non penalizzi chi sta nella trincea più fragile, esposta, indifesa. Si potrebbe orgogliosamente sostenere che nella proposta di “Liberiamo l’informazione” e di “Contrordine” si leggono le idee giuste. Evidentemente da sole non bastano: bisognerebbe con quelle idee e magari con qualcosa di più (siamo una minoranza e abbiamo qualche responsabilità in più) incontrare la sensibilità dell’opinione pubblica, dei sindacati, delle forze politiche. Bisognerebbe soprattutto incontrare la sensibilità del nostro sindacato, cancellando contrapposizioni, personalismi, protagonismi, scambi ambigui. Riconoscendo che è difficile se non impossibile continuare da soli. Ritrovare anche la disponibilità di un “categoria” al conflitto, unendo: niente di peggio io credo sia per tutti in un paese normale un mercato del lavoro corrotto, falsato dall’abusivismo.
       
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