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Premiato Luigi e il giornalismo che verrà


violenzadonneAllora serve! Il premio che l'Ordine ha attribuito a Luigi Caputo, collega e allievo del master milanese Tobagi della "Statale", ci dice tante cose. Che cresce una generazione di giornalisti sensibili, oltre che bravi e competenti, che i temi della violenza e dell'ingiustizia sono assunti come problemi umani e non delle sole vittime, che spiegare paga. GiuliaLombardia ha tenuto al Master "Tobagi" quattro lezioni sul disvelamento degli stereotipi su/contro le donne e Luigi Caputo è uno dei "suoi" studenti. L'articolo premiato affronta i luoghi comuni nelle cronache di femminicidio ed è stato pubblicato sul giornale della Scuola (http://www.lasestina.unimi.it/lasestina/posts/quando-anche-le-parole-uccidono-le-donne/), sul sito di Giulia (http://giulia.globalist.it/Detail_News_Display?ID=56897&typeb=0&Quando-anche-le-parole-uccidono-le-donne) e presto su quello dell'Ordine. Un successo che va a merito anche dell'impegno sul tema dell'Università degli Studi e che ha convinto GiuliaLombardia a proseguire il corso anche nel prossimo anno accademico. Ricordo che la rete territoriale di "giulie" ha all'attivo altre iniziative, fra cui lo spettacolo Desdemona e le Altre, la Gara fotografica Lo sguardo di Giulia che si concluderà in autunno, nonché una ulteriore ricerca sul lavoro precario condivisa con un gruppo di lavoro di Nuova Informazione. Ecco l'articolo premiato. M.C. Quando anche le parole uccidono le donne Giovedì 7 Marzo 2013 La denuncia di GiUlia, associazione di giornaliste: “Nei media si usano ancora troppi stereotipi di genere per descrivere gli episodi di femminicidio”. La discriminazione contro le donne passa anche attraverso le righe di un articolo e le frasi di un servizio Un marito uccide la moglie a colpi di mattarello. La colpisce più volte alla testa fino a quando il suo corpo cade in terra senza vita. Accade in un’abitazione nel centro di Rieti. Per il Tgr del Lazio è «un delitto passionale», come riporta la scritta in sovraimpressione. Nel servizio il giornalista racconta che «l’uomo era molto innamorato, quanto geloso». Uccidere per gelosia, in preda a un raptus, perché ci si sente traditi. Sono casi di stereotipi di genere, luoghi comuni di cui i media si fanno portavoce e che implicitamente discriminano le donne a partire dal linguaggio. Si utilizzano parole come gelosia, follia per spiegare un fenomeno che in realtà ha radici più profonde. Spiega Adriana Terzo, giornalista dell’associazione GiULia (gruppo di reporter in prima fila contro le discriminazioni linguistiche): «I giornali sbagliano a identificare la causa di un delitto nel raptus. Il raptus in sé non esiste perché una donna prima di essere uccisa subisce minacce, percosse e questo i media non lo dicono. Così si perpetra una doppia violenza». Secondo una ricerca sulla copertura mediatica dei casi di femminicidio compiuta dalla professoressa Elisa Giomi, docente in Tecniche di comunicazione di massa all’Università di Siena, i sei più importanti telegiornali italiani (quelli Rai e Mediaset) selezionano le storie in base a determinati criteri di notiziabilità . Anche se la tipologia di reato più comune avviene tra partner che si conoscono (100 casi su 162), gli episodi più raccontati sono quelli in cui la vittima non ha una relazione con l’assassino. Il movente più richiamato è il possesso. Perché? Secondo la professoressa Giomi, i giornalisti trattano il fenomeno in modo superficiale, ricorrendo agli stereotipi di genere per non indagare a fondo: «La cosa sorprendente è che ancora oggi si parla di uomini che uccidono donne per gelosia o perché troppo innamorati. Ai media interessa tirare fuori storie che appassionino il pubblico senza rintracciare le cause del problema. Queste costruzioni linguistiche alla fine alterano la semantica del femminicidio finendo per dare una giustificazione implicita all’assassino. Non viene raccontato che invece questi uomini sfogano sulle donne i loro problemi esistenziali». Il ruolo dei giornalisti è cruciale nella percezione del fenomeno. Un’informazione priva di stereotipi di genere è indispensabile per far emergere il sommerso che sta alla base degli atti violenti: «La mancanza più stridente nei telegiornali – continua la docente – è la corretta contestualizzazione degli eventi. Implicitamente si conferiscono attenuanti per rendere accattivante la notizia. I giornalisti invece dovrebbero svolgere un ruolo chiave nella percezione esatta di ciò che accade». Gli stereotipi di genere non riguardano solo episodi di femminicidio. Un caso emblematico è la declinazione al femminile dei termini che indicano posizioni di potere. I giornalisti utilizzano parole come cassiera, cameriera, ma sono reticenti nel scrivere sindaca o ministra. Per molti suona inusuale. Secondo il presidente emerito dell’Accademia della Crusca Francesco Sabatini questo assunto è sbagliato: «Tutte le cariche sono declinabili al femminile e quindi non è vero che l’italiano non lo prevede. È anche sbagliato sostenere che determinate parole al femminile suonano male, perché non indicare il genere giusto crea solo confusione nella comunicazione». Per Sabatini la ragione di queste storpiature è essenzialmente culturale: «Negli altri Paesi hanno femminilizzato tutto. In Italia c’è una certa resistenza perché si tende a conservare un modello culturale maschilista che non concepisce le donne in posizioni di comando. La discriminazione si combatte a partire dalle parole, altrimenti le donne non esistono. In questo senso i giornalisti dovrebbero favorire un uso corretto del genere femminile». Il vademecum stilato dall’associazione GiULia per un’informazione priva di stereotipi di genere invita i giornalisti a non riportare le esternazioni dell’assassino, a evitare di colpevolizzare la vittima indicando i particolari del suo abbigliamento e a non relegare il femminicidio a raptus di follia. Sono piccoli accorgimenti per un’informazione corretta e socialmente utile. Le parole sono importanti, dopotutto. Luigi Caputo
       
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