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Per i freelance un contratto che non c'è


Saverio Paffumi

Credo di poter dire, attingendo a informazioni esterne e a quel che si può leggere, che per i giornalisti autonomi questo contratto semplicemente non esiste.

I freelance sono fermi al palo del contratto precedente, senza alcun passo avanti significativo. Chiedo venia se non entro nel merito della discussione che riguarda l’altro pianeta, quello dei contrattualizzati in un modo o nell’altro. Lo farete voi nelle sedi opportune. Noi non abbiamo neppure le sedi, figuratevi. Il mercato nero delle prestazioni pagate poco e male rimane tale, ha una sorta di via libera per diffondere le sue metastasi che poi portano alla chiusura dei giornali, ai licenziamenti, all’idea che due redattori (mal) pagati e un piccolo esercito di schiavi senza regole bastano per fare un giornale. Abbiamo detto e ridetto, in questi anni, che poco era meglio di niente.  E non parlo di tariffari e di soldi. Parlo di principi, di diritti umani. Di pari dignità delle persone e del lavoro che svolgono. Qualche piccolo passo avanti. Uno per tutti: il pagamento a far data dalla consegna, anziché dalla pubblicazione. Bastava questo per dare un segnale. Invece niente, nemmeno questo. Io non credo sia solo un problema di rapporti di forza con gli editori. Io credo sia un problema di rappresentanza. La FNSI in questo momento non rappresenta, non riesce a rappresentare il lavoro giornalistico autonomo. Né quello di lusso (minoritario), né quello con le toppe nel sedere (dilagante). Io non voglio indicare qui quale sia la via d’uscita. Non so più nemmeno se sia sufficiente un “Sindacato di base del lavoro autonomo”, colpevolmente lasciato nel cassetto nonostante lo avesse previsto un congresso nazionale, o se come alcuni amareggiati colleghi dicono sia meglio rivolgersi alla CGIL. Certo questo è il problema “sindacale” che ora si apre. Il problema è che ci sfugge una parte grande, giovane (oppure, peggio ancora, anziana) e precaria della categoria. Che non sappiamo come recuperarla, come tenerla unita al resto della “famiglia”. Il paradosso è che questo contratto rischia di essere bocciato (a livello consultivo, perché ormai sarà firmato) proprio da quelli che garantisce di più. I quali forse nemmeno se ne rendono conto. Ebbene, se io fossi ancora “dentro”, ragionerei come Guido Besana:  Brutt e Bun; meglio un contratto che nessun contratto. Ma “fuori” è diverso. Non c’è né il brutt né il bun. Non c’è niente, non ci sono regole. C’è un antitrust che se la prende anche con i nostri tariffari disattesi, invece di difenderci da compensi degni dei pezzenti. C’è un cartello di editori che domani sarà ancora più cattivo, sprezzante e crudele. C’è un governo che non difende i deboli.  C’è un lavoro che non è più un lavoro, dato che non assicura sussistenza. C’è una crisi dilagante. Il sindacato, o il sindacato di base, o un altro sindacato, dovrà ricominciare da lì. Perché una cosa è certa: di un sindacato avremmo  e avremo bisogno, fintanto che non vogliamo o non riusciamo a cambiare mestiere. Con amarezza sincera, pur comprendendo tutto lo sforzo che è stato fatto
       
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