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Mutande e libertà critica
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di Marina Cosi
L'altro giorno ero assolutamente sconcertata, come una/un qualsiasi cittadino lettore ancora in grado di valutare le priorità ed il merito delle notizie, dai dettagli intimi sulla soldatessa amante di Parolisi, in prima pagina del Corriere. Ma poi ho visto che quasi nessun giornale si salvava dal grufolamento nelle mutande, nè tantomeno le tv, dai contenitori del mattino sino a chiudere a notte con Vespa. Il presidente Natale con la sua sensibilità è subito andato alla sostanza politica di questa presenza straripante di "nera" che oscura i temi veri e in un comunicato provocazione (che leggete qui sotto) suggerisce ai referendari di ammazzare qualcuno....
E' vero che si tratta d'una forma subdola di censura: essendo lo spazio (sulla stampa) e il tempo (nei palinsesti) limitato, se lo si occupa tutto con pezzi di gossip, di nera, di dietro le quinte, di ricostruzioni, piantine, anniversari...
Ok. Però io vorrei porre un quesito che tocca un tabù della nostra categoria: il dovere di pubblicare "la qualsiasi". Gli amici dell'Unione cronisti, cui peraltro sono iscritta, hanno fatto delle meritorie battaglie e sfidato legge e galera per ribadire il diritto/dovere di informare su qualsiasi dato venga a nostra conoscenza. Di recente il caso Wikileaks ha portato il dilemma sulle fonti e la pubblicabilità al centro d'una discussione giornalistica planetaria. Restando nella dimensione domestica di questa stessa discussione, noto un paradosso. Il presunto "dovere" di pubblicare tutto, in nome dell'indipendenza giornalistica da ogni considerazione altra rispetto all'obiettivo di informare il lettore, cozza con i principi di professionalità che giustificano l'esistenza stessa del giornalista. Il giornalista, che sì dev'essere autonomo ed indipendente, non è però un ghisa che dirige il traffico delle news, non è un "tramite" ma è un "interprete": è, lo sappiamo, quello che cerca le fonti, le controlla, ne seleziona i dati, li valuta, li contestualizza e "produce" la notizia. E' uno che fa le scelte con criteri appunto professionali e che se ne assume la responsabilità intellettuale prima ancora che civile. Altrimenti perchè mai dovremmo respingere il citizen journalism? Perchè dovremmo sostenere (giustamente, a mio parere) che il contributo open source è utilissimo, talora fondamentale, ma va messo nella categoria delle fonti e non della (nostra) professione? Se non ci riprendiamo questa responsabilità sino in fondo, la scelta di cosa finisce in pagina verrà comunque fatta, ma da chi apre o chiude i rubinetti delle "rivelazioni". Certo la responsabilità ha un prezzo e soprattutto presuppone un lavoro di cernita e riflessione faticoso. Ma è la stampa bellezza.
di Roberto Natale presidente Fnsi
“E’ un vero peccato che alla base dei prossimi referendum di metà giugno non ci sia qualche bel delitto passionale. Così non ci sarebbe bisogno di regolamenti, spot e appelli per far circolare le notizie, ma potremmo contare sulla spontanea, entusiastica disponibilità del sistema dell’informazione a sviscerare il tema in ogni suo più minuto dettaglio. Come sta avvenendo per la tragica vicenda dell’uccisione di Melania Rea, al centro in questi giorni di una programmazione televisiva quasi monotematica. Ore e ore di trasmissione, al mattino, nel pomeriggio e in serata. Naturalmente nessuno vuole che i casi di cronaca vengano nascosti all’opinione pubblica, ma non è nemmeno accettabile una sproporzione tanto vistosa tra una pur dolorosa vicenda privata (che però ha il vantaggio di “stuzzicare” curiosità morbose) e questioni che riguardano la vita della nostra collettività (comunque la si pensi e qualunque sia il giudizio che ciascuno di noi ha sui quesiti referendari). Se continua così, andremo a votare senza sapere quasi nulla su pro e contro della proprietà pubblica dell’acqua, sulle questioni dell’energia, sul legittimo impedimento. In compenso, ciascuno di noi saprà dire benissimo in quale supermercato e in quale minuto di quale giorno abbia fatto la spesa Salvatore Parolisi. L’overdose di Avetrana sembra non aver insegnato nulla. Troppo comodo, per chi ha responsabilità decisionali nel sistema televisivo, recitare il mea culpa tra qualche settimana. E’ adesso il momento di correggere la rotta, magari a partire da un’azienda che ama ancora definirsi servizio pubblico”.