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La riforma vista da dentro: luci, ombre e ...fedrizzottate
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di Oreste Pivetta Ho letto qualche pagina qui e là dei resoconti del dibattito al Senato sulla legge per l’editoria, legge che tornerà alla Camera (effetti del bicameralismo, che –s’intende- non è il peggiore dei mali, bensì solo un ordinamento democratico che potrebbe garantirci in sommo grado dagli errori e dalle sviste se fosse interpretato in modo corretto...). Condivido il giudizio di molti: ombre e luci, che si accompagnano ad un “finalmente”. Non sarà la legge che salva giornali e televisioni in Italia, ma finalmente c’è. La legge cerca con mezzi purtroppo fragili di rallentare il declino, distribuendo quattrini. Si sarebbe potuto inventare qualche cosa di diverso di fronte al cataclisma che ha travolto l’intero settore? Dubito, salvo imboccare la via del miracolo per trovare e metterci più soldi. Ciò che non mi piace è l’eccesso di delega al governo, oggi Renzi, domani chissà. Ma correttivi sono stati introdotti in sede di dibattito dagli stessi presentatori. Non mi convincono neppure i criteri di ripartizione dei fondi “per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione”. Perché tagliar fuori ad esempio gli organi di partito, se si vuole assicurare la piena attuazione dell’articolo 21 della Costituzione, se davvero si tratta davvero di organi di partiti veri? Non è un cedimento anche questo alla “moda” dell’antipolitica? Perché poi (condivido in questo caso la critica del presidente dell’Ordine Iacopino per il mancato accoglimento di un emendamento) non obbligare gli editori, per accedere ai finanziamenti, a dichiarare tutte le partecipazioni azionarie, dirette e indirette, in Italia e all’estero... (ma l’articolo 2 prevede che gli eventuali finanziamenti siano legati al “regolare adempimento degli obblighi derivanti dal rispetto e dall'applicazione del contratto collettivo di lavoro, nazionale o territoriale, stipulato tra le organizzazioni o le associazioni sindacali dei lavoratori dell'informazione e delle telecomunicazioni e le associazioni dei relativi datori di lavoro, comparativamente più rappresentative”). Sono ovviamente questioni da esaminare con ben altra attenzione a legge definitivamente approvata. Di delega in delega, arrivo, da consigliere nazionale dell’Ordine, all’Ordine, appunto. Renzi aveva minacciato (ricordo le sue conferenze stampa di fine d’anno) di “chiuderlo”. Ha rinunciato all’idea, che ha trovato infine sostegno solo tra i Cinquestelle, in particolare e con particolare colore presso il senatore “penta stellato” Fedrizzi: per giustificare la sua avversione all’Ordine ha tirato in ballo addirittura l’albo istituito da Mussolini e ha definito l’Ordine un istituto che in linea di continuità oggi cementerebbe “una corporazione che limita l'accesso alla professione di giornalista da parte di chi vuole contribuire alla pluralità delle voci che intervengono nell'informazione italiana”. Qualche perplessità mi sento di manifestarla: il senatore Fedrizzi conosce l’articolo 21 della Costituzione? ha consapevolezza dello stato della informazione in Italia? sa qualcosa a proposito dei compiti dell’Ordine? ha mai sentito parlare di deontologia? Torno alle deleghe. La vera riforma sta adesso nelle mani del governo. Un altro senatore (Rizzotti di Forza Italia) ha osservato che le deleghe andranno a “supplire ad una mancata autoriforma degli stessi giornalisti”: il senatore ritiene evidentemente che i giornalisti avrebbero potuto di loro iniziativa cambiare o cancellare una legge dello stato (quella istitutiva del 1963), mentre ignora che tante proposte di riforma sono rimaste insabbiate in Parlamento e che i giornalisti stessi i loro progetti li hanno variamente presentati al legislatore... senza esito, finora. La partita che si aprirà a testo definitivamente approvato dovrà riordinare compiti e attribuzioni. La legge per ora dà un colpo forte, se pure in poche scarsissime righe, riducendo il numero dei consiglieri a sessanta (quarantotto consiglieri nazionali più dodici nei consigli di disciplina), ristabilendo il rapporto due/uno tra professionisti e pubblicisti come indica la legge del 1963 (suscitando l’ira del collega Gasparri, professionista e ora difensore dei pubblicisti o – meglio, come dice lui stesso – di quei pubblicisti che lavorano comunque a tempo pieno nei giornali, dimenticando che tra i consiglieri e soprattutto tra gli “elettori” pullulano i pubblicisti, che pur essendo ottimi avvocati o ottimi insegnanti non hanno mai visto un giornale... sono sbrigativo e me ne scuso, ma è la legge che prevede come per diventare pubblicisti siano indispensabili lavoro autentico e reddito conseguente). La prima, prossima, questione in campo – e se ne discute da tempo –è relativa al sistema elettorale, un autentico rebus se si dovrà tenere conto del rapporto professionisti/pubblicisti, della rappresentanza di genere, dei presidi regionali (“garantendo – parole del relatore Cociancich -la massima rappresentatività territoriale”). Non riesco a immaginare come si potrà fare, da una parte i sessanta, dall’altra questi paletti. Ma non sono un esperto di ingegnerie elettorali. Mi permetto però di osservare che la struttura fondamentale dell’Ordine dei giornalisti è costituita dai consigli regionali, regolarmente eletti, che garantiscono dunque la “rappresentatività territoriale”: l’obiettivo sarebbe a questo punto assicurare un ruolo ai presidenti regionali in seno al consiglio nazionale. Il mio augurio (ma è proprio un mio augurio, personalissimo) è che se ne tenga conto e che non ci si inventi complicati marchingegni (non sempre limpidi). Oltretutto credo che dovrebbe prevalere una visione nazionale, tenendo conto peraltro dei compiti di un Ordine nazionale, compiti di indirizzo, di orientamento, di controllo... una visione nazionale soprattutto nei giorni in cui un mondo complessivo trema e rischia di lasciare tutto lo spazio ad un mercato oligopolistico che con regionalismi e campanili ha ben scarsa affinità.