Redazione
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Indimenticabili 2 (nel mirino di Gelli e soci)
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Pertegato e Conoscente, nel ricordo di un altro grande inviato e loro amico, Antonio Ferrari. Occasione di un cupo affresco di quegli anni, fra i tentacoli della P2 anche sul Corrierone, i servizi deviati e i terroristi assassini. Anticipiamo qui il testo che uscirà sul prossimo numero di "Centro Sociale Corriere della Sera". di Antonio Ferrari A Giancarlo Pertegato mi univa, oltre alla stima professionale, un sentire comune, la grande curiosità e una consolidata amicizia. Un giorno, con molta circospezione, Giancarlo mi chiese di spiegargli perché esisteva una specie di strano "ostracismo" di un vice-caporedattore nei confronti miei e del collega Fabio Felicetti. Non riusciva a farsene una ragione. Neppure noi, in realtà, riuscivamo a capire il perché. La verità è che, apparentemente, non vi erano ragioni. Tutti però sapevano che il vice-caporedattore non andava affatto d'accordo con il suo superiore, Lorenzo Pilogallo, che invece era un grande signore, un professionista verticale e una guida sicura. Ma quel suo "vice", Roberto Ciuni, ce l'aveva - chissà perché - proprio con noi, comunque voleva emarginarci pochi mesi dopo la nostra nomina a inviati speciali. Avremmo scoperto con qualche anno di ritardo il possibile "movente" di quello strano atteggiamento, che puniva noi per privilegiare altri. Lo capimmo quando il nome di Ciuni fu trovato nell'elenco degli iscritti alla P2, a Castiglion Fibocchi, nella "tana" del venerabile maestro. Sia Pertegato sia chi scrive, occupandoci di terrorismo, avevamo denunciato, commentando vari processi sulle trame nere, l'ombra mefitica della massoneria deviata, e in particolare proprio della P2. Anche Felicetti aveva condiviso pubblicamente le nostre osservazioni. Ma nessuno di noi sospettava, in quella tribolata stagione, che la loggia di Gelli avesse in mano i destini del Corriere della Sera, anzi ne fosse praticamente la padrona. Pertegato era stato nominato inviato dopo una lunga permanenza al vertice della Cronaca di Milano, come vicario del capo, Salvatore Conoscente. Fabio Felicetti ed io eravamo diventati inviati seguendo un altro percorso: quello della redazione Interni. Curiosamente, per alcuni mesi, come ho raccontato, Fabio ed io quasi scomparimmo. Pertegato, nominato dopo qualche tempo, finì presto nel cono d'ombra, come noi. Un pomeriggio, Lorenzo Pilogallo entrò come una furia nel salone Albertini. Mi disse, rosso in viso: "Tu, parti subito per Catanzaro a seguire il processo di Piazza Fontana. Scrivi 90 righe, anche 100, e quando telefoni parla solo con me. Ho già mandato laggiù Pertegato". Poi si rivolse a Felicetti: "Tu, vai a fare un'inchiesta a Reggio Calabria. Parti subito. Intesi, ragazzi?", e uscì dalla stanza lasciandoci allibiti, seppur piacevolmente sorpresi. A Catanzaro, Pertegato ed io stavamo nello stesso albergo. Un giorno, lui mi telefonò e disse che aveva un appuntamento con Giovanni Ventura, uno degli imputati neri della strage di piazza Fontana, il quale intendeva fare alcune dichiarazioni. Mi chiamò Pilogallo, chiedendomi il favore di scrivere qualche riga in più di quanto avevamo concordato, perchè Pertegato avrebbe mandato l'intervista con Ventura il giorno successivo. In Via Solferino, poche ore dopo, successe il pandemonio, perché un'agenzia di stampa diffuse la notizia - fonte Viminale - che Ventura aveva promesso al Corriere della Sera clamorose rivelazioni. La verità era evidente: i servizi segreti, o chi per loro, avevano ascoltato le telefonate di Pertegato e mia a Pilogallo, che corse nell'ufficio del direttore Franco di Bella. Il quale chiamò il ministro dell'Interno. Il quale, alla fine, porse le scuse. Da quel giorno, con Pertegato, ci trovavamo al giornale, a pranzo, o a cena, per discutere sulle trame che stavano soffocando la Repubblica e, come giustamente temevamo, anche il Corriere della Sera. Furono anni difficili. Entrambi eravamo pesantemente sotto tiro: avevano trovato i nostri nomi e altre indicazioni personali in vari covi. Seguimmo insieme, a Padova, il caso "7 aprile", quando cioè si aprì la clamorosa inchiesta sui professori di scienze politiche in odor di terrorismo. Con noi, nei primi giorni successivi alla massa di arresti, era venuto a Padova anche il collega Walter Tobagi. Sempre noi tre, il 28 marzo 1980, partimmo per Genova, dove era stato scoperto il covo delle Brigate rosse in via Fracchia. Non potevamo lontanamente immaginare che, per uno di noi, quella data sarebbe stata fatale. Proprio l'irruzione dei carabinieri in via Fracchia e la strage di terroristi che ne seguì, suggerì ai praticanti dell'eversione Marco Barbone e compagnia di autoproclamarsi "Brigata 28 marzo", di sparare alle gambe del collega di Repubblica Guido Passalacqua e, il 28 maggio, di tendere l'agguato mortale, in via Salaino, al nostro collega e amico Walter Tobagi. Da quel giorno ci fu imposta una scorta privata. Era una vita infernale, la libertà andava in fumo. A me capitò per due volte di ricevere la telefonata del direttore, che mi ordinava di partire da Milano, senza perdere un attimo, e di segnalare soltanto al segretario di redazione, Luciano Micconi, dove sarei andato. Anche a Pertegato toccò, almeno una volta, di doversi allontanare da casa. Giancarlo, che aveva vent'anni più di me, insisteva perché non commettessi imprudenze. E' in quella fase delicatissima, durata oltre due anni, che la nostra amicizia divenne ferrea. Pertegato era una persona colta e insieme semplice. E soprattutto aveva senso dell'umorismo. Aderiva al partito comunista, ma non aveva ossessioni dogmatiche. Al contrario, apparteneva al gruppo dialogante, che voleva vere riforme, e criticava i "prigionieri" dell'ottusa e acritica appartenenza. Andammo assieme a Spoleto, a commemorare Walter Tobagi, subito dopo la sua morte. Io ero stravolto, ed ebbi problemi a mantenermi lucido. Lui, durante il mio intervento, mi fece coraggio. Poi, al microfono, descrisse il collega scomparso con grande competenza e passione. Il padre di Walter, alla fine della cerimonia, ci abbracciò entrambi. Pertegato era in pensione da tempo, ma il suo legame con il Corriere della Sera, e con me in particolare, non si è mai interrotto. Aveva seguito, per un tratto, la guerra civile libanese, perciò - quando divenni inviato per il Medio Oriente -, a ogni mio ritorno si faceva raccontare tutto. La sua curiosità era incontenibile. Aveva in mente di scrivere un saggio-inchiesta sul terrorismo italiano. Anche negli ultimi tempi mi metteva al corrente delle sue ricerche e dei passi avanti compiuti. Che cosa dirti, adesso? Che il riposo ti sia amico, caro Giancarlo. Mi mancherai.