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In nome della qualità e della professione


 di Guido Besana La natura della crisi, strutturale e congiunturale, che si è abbattuta sul sistema dell’informazione italiano sta rilevando alcune caratteristiche qualitative dell’impresa editoriale che rendono ancora più fosco di quanto già non sia l’orizzonte delle prospettive.  La più evidente di queste caratteristiche è l’apparente, si spera, incapacità di costruire, o anche solo immaginare, un nuovo modello industriale.  Nonostante la forte sollecitazione messa in campo con il rinnovo del Contratto Nazionale di Lavoro FIEG FNSI la multimedialità, per fare l’esempio più evidente, rimane una parola pressoché vuota.  Nel corso delle innumerevoli trattative per affrontare piani di riorganizzazione svoltesi nell’ultimo biennio al momento di parlare di investimenti e sviluppo il modello più gettonato dalle imprese per impegnarsi sul web è stato quello della riproposizione in formato elettronico dei contenuti del giornale cartaceo. Una parte delle aziende ha proposto un modello in cui il giornalista, a fianco della sua normale attività per il cartaceo, trova il tempo per: “scrivere dieci righe da mettere in Internet”.  Pochi immaginano una integrazione con i social network, pochissimi la web tv, l’approccio alla grafica e all’impaginazione resta quello tradizionale.  L’arrivo sul mercato dell’I-pad e degli altri tablet, come l’estendersi del mercato degli smartphone, sta spingendo alcune grandi aziende a creare applicazioni specifiche, ma l’integrazione resta lontana e i modelli di business incerti.  Nessuno ha pensato di integrare carta, web, mobile, radio e tv, come ormai tecnologicamente sarebbe possibile nell’era della convergenza.  La povertà della proposta di rilancio va di pari passo con la scarsa considerazione per il problema dei contenuti. Che vengono visti come l’ultimo dei tasselli di un puzzle ancora irrisolto.  Eppure il concetto di “premium” ha ormai fatto breccia nel comune parlare dei manager, e dovrebbe essere chiaro come solo prodotti di qualità possono essere remunerativi nel mercato elettronico, web o broadcasting poco cambia.  Certamente il processo della convergenza e dell’integrazione tra media diversi è ancora lungo, sicuramente non può avvenire solo per spinta delle imprese, ma va negoziato. Eppure si percepisce un ritardo preoccupante, si vive come in uno spazio di sospensione in cui tutti attendono che sia qualcun altro a fare la prima mossa. E si perde tempo.  Inevitabilmente qualcuno prima o poi darà il via, e in quel momento si dovrà giocare, in tempi strettissimi, una partita vitale per il sistema dei media, per la sopravvivenza delle imprese editoriali e, non ultimo, per il mercato del lavoro. In termini brutali: più sarà il lavoro affidato ai giornalisti più saranno i posti di lavoro per i giornalisti stessi.  E’ superfluo spiegare perché ci servono più posti di lavoro, per i precari, per i disoccupati, per i freelance, per i giovani.  E’ ovvio che agli enti di categoria serve una platea contributiva più ampia per superare le gobbe indicate nei bilanci attuariali.  Bisogna quindi capire quanto lavoro in più può derivare da questo processo, ma soprattutto quale tipo di lavoro e quale tipo di posti di lavoro si possono creare. Perché non è certo auspicabile un futuro alla catena di montaggio del copia e incolla.  Obiettivo non certo agevole, non avendo ancora un modello chiaro di impresa su cui modulare le varie esigenze. Tuttavia alcune cose si possono dire “a prescindere”, alcune linee di tendenza possono già oggi essere individuate. 1)    Un’impresa multimediale economicamente sana, capace cioè di sostenere il lavoro, deve poter contare sia sulla pubblicità che sul prezzo di diffusione. La triste fine di troppi progetti di free press insegna che la sola pubblicità non basta, a meno di possedere tre reti nazionali generaliste ( e anche questo requisito, che ha permesso a Mediaset di vivere bene per decenni, non pare più sufficiente ). Sono quindi necessari contenuti per i quali il pubblico sia disposto a pagare, nel caso dell’informazione questa deve essere di qualità e ben scelta. 2)    Per “stare sul mercato” le imprese dovranno quindi investire in formazione e poter dare lavoro a giornalisti professionalmente e culturalmente preparati, in grado di fornire prestazioni di alto livello sia per competenze professionali sia per versatilità multimediale 3)    Il modello generalista ha fatto il suo tempo, per conquistare pubblico serve la capacità di fornire un modello nuovo, capace di tagliare via tutto il rumore di fondo e focalizzarsi su informazioni essenziali, determinate da una convergenza col proprio pubblico sui criteri di notiziabilità. 4)    Il pubblico è disposto a pagare anche on-line, presumibilmente più per applicazioni che forniscano informazione mirata che non per poter semplicemente navigare nel web, dove il gossip e la cronaca gratuiti abbondano.
       
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