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Così parlò Raffaele


Ferve, in Nuova Informazione, la discussione su identità, progetti e organizzazione. Un forte vento che, come in ogni preannuncio di primavera, getta le foglie morte dai rami, ma non abbatte gli alberi se questi hanno salde radici. Ossia idee ancora attuali e conquiste consolidate. Ossia Fiesole, che fu la nostra fucina di analisi e sogni, e Nuova Informazione, luogo della conseguente attività sindacale. La memoria fa da collante fra generazioni; per questo risulta interessante rileggersi quest'intervento che il "nostro" Raffaele Fiengo tenne il 13 maggio 2008 in uno degli ultimi incontri di Fiesole. di Raffaele Fiengo  Nel 1994, mentre Fiesole andava in letargo, si sono consolidate (con  le elezioni politiche e la presenza di Berlusconi a palazzo Chigi) le  prime conseguenze istituzionali dell’anomala democrazia italiana.  La manifestazione del 25 aprile a Milano sotto la pioggia fu il segno  più evidente di quanto fosse ampia la consapevolezza civile sulla  questione.  A novembre fu pubblicato, proprio a Firenze, su “Belfagor”, il  “Manifesto democratico 1994”, un documento in dieci punti al quale ho  dato un personale contributo insieme con Cesare Segre e Corrado  Stajano. Il testo ebbe una lunga gestazione, ne ricordo 19 versioni  attraverso dibattiti nelle università e nelle case editrici su singoli  punti.  L’ho riletto attentamente prima di venire a questo incontro di Fiesole  e penso che, in particolare, due di questi punti, per la chiarezza del  testo, possono essere tra gli elementi fondanti richiamati nel momento  in cui Fiesole torna. Il ruolo decisivo dell’informazione e la  trasmissione di valori e saperi sono, infatti, le chiavi del rapporto  tra giornalismo e democrazia entrato in stato di crisi in Italia da  molti anni.  Ecco i testi:  -“La libertà della parola parlata e della parola scritta è alla base  di tutte le altre libertà. Fondamento concreto della democrazia è  dunque l’esercizio effettivo della libera espressione del pensiero e  dei diritti di informazione. Costituisce un attentato quotidiano  contro di essa il monopolio dei mezzi potentissimi con cui può essere  limitata, falsata, influenzata o conculcata. Le antenne con le quali  milioni di uomini sono usciti dall’isolamento costituiscono per  ciascun cittadino un bene prezioso e delicato di cui nessuno può avere  il dominio assoluto”.  -“Le nuove generazioni hanno sofferto per le carenze nell’impegno  educativo, da parte della famiglia e della scuola di ogni grado. È  necessario dare l’avvio a un forte processo di trasmissione dei saperi  e di acculturazione, che ponga gli individui in condizione di  riappropriarsi di principi che sono fondamentali: quello della  tolleranza e dell’aiuto reciproco, quello del rispetto insieme dei  diritti e dei doveri. E occorre a far riscoprire a chi li ignora e far  accettare a chi li mortifica i valori concreti della cultura: i quali,  insieme con i precedenti, sono fondamento della nostra umanità e della  dignità di vita.  “Negli interstizi di un sistema chiuso dei meccanismi di potere, non  pochi individui liberi e responsabili hanno continuato a coltivare la  trasmissione dei saperi e hanno costruito, o tentato di farlo, le  premesse di una società più libera e più giusta. Questo processo di  liberazione deve riprendere e allargarsi per aumentare la  consapevolezza individuale all’interno di una società di massa e per  restituire il senso della vita e la dignità alle nuove generazioni.  “Chiunque si trovi inserito nei processi produttivi deve rivendicare  il diritto e il dovere di non contribuire all’imbarbarimento, di fare  invece cultura, di essere titolare della propria vita. Questa capacità  di mettere la cultura dentro le attività, le manifestazioni e gli  svaghi quotidiani e dentro i prodotti, anche di massa, nel nostro  Paese esiste. Cerca solo una rappresentanza seria e disinteressata.  “Anche da qui possono venire l’eguaglianza delle opportunità, la  giustizia, la sicurezza e l’ordine”.  Con questo orizzonte, se vogliamo trovare e proporre una strada,  dobbiamo andare al cuore del malfunzionamento del giornalismo, una  delle cause più dirette del declino ora ancora più evidente.  Personalmente non condivido chi (New York Times) sembra considerare  irreversibile questa deriva (la morte dei giornali), né penso che  avvenga soltanto in Italia. Ma dobbiamo guardare in faccia i  cambiamenti avvenuti nel senso comune. Due novità significative e poco  enunciate: “IL RIFIUTO DELLE ELITE” E “L’ORIZZONTE DOMESTICO”.  Il rifiuto delle èlite  Il rifiuto delle èlite è una distorsione della crescita individuale,  economica e sociale che ha allargato i consumi e valorizzato i  soggetti. Semplificando al massimo il discorso, si comprende come  mancanze gravi nei singoli fattori che arrivano ai cittadini  (precarietà, perdita di reddito, incapacità della pubblica  amministrazione, scuola, cultura, informazione…) possano portare alla  rinuncia della politica come rappresentanza. Se l’immigrato mi piscia  sulla porta voglio solo che lo caccino via, non cerco qualcuno che lo  integri con dignità nella comunità. Se la Romania entra in Europa e  migliaia di persone, per di più molti zingari, non tutte bene  intenzionate, si stabiliscono con disordine da noi, non cerco i  sociologi o i tecnici o il buon politico, capaci di coniugare dignità  e sicurezza; mi affido a chi rozzamente li allontani, e subito. Senza  tanti ragionamenti. Questo processo è certo favorito quando l’èlite  acquista caratteri di casta, si chiude e accumula privilegi. Non  amministra i problemi, li accompagna soltanto con i dibattiti. Una  controprova clamorosa: alla vigilia del 31 dicembre 2007, data  fatidica dell’ingresso in Europa di Romania e Bulgaria, nessuno si è  posto il problema di una prevedibile onda anomala rumena. E anche i  giornalisti: dov’erano? E dov’erano nei 15 anni in cui l’immondizia ha  occupato la Campania?  Una nuova rivoluzione culturale è in corso? È quanto pensa  “Liberation”che sta lanciando per il 13, 14 e 15 giugno una grande  riflessione pubblica per capire se possano esserci, e quali siano, le  forme nuove di rapporto tra i cittadini, lo Stato e la cultura. C’è  una “cultura del popolo” meno elitaria. Quali sono le nuove relazioni  sociali che nascono.  Su tutto campeggia una parola: populismo.  Sabato 5 gennaio 2008 Vittorio Feltri, sotto l’occhiello “rivolta a  Napoli”, ha titolato la prima pagina di “Libero”così: “LA VOGLIA DI  IMPICCARLI”. La grande foto di uno dei fantocci appesi con i nomi  Iervolino-Bassolino rendeva la frase ancora più chiara.  Certo un bel numero di copie vendute a Napoli, travolta dalle  immondizie, dove di solito non si comprano molti quotidiani. Feltri  accarezzava “la cultura del popolo”?  Non si pubblica una inchiesta che spieghi come e perché la Campania  sia l’unico posto d’Europa dove non si riesca a raccogliere e smaltire  le immondizie. “Libero” si colloca, invece, al centro della piazza  inferocita. Esattamente come il comiziante nel più classico esempio  della dottrina liberale in materia di libertà di manifestare il  pensiero: l’uomo che da una tribuna parla a una folla affamata per la  carenza di pane, puntando il dito verso i forni dove i panettieri  nascondono la farina per far alzare i prezzi. La Corte Suprema degli  Stati Uniti ha sempre fatto ricorso a una espressione, “Clear and  present danger”, un pericolo chiaro e presente, per ipotizzare o  configurare i limiti ovvi e naturali alla libertà di manifestare il  pensiero. È una problematica seria, in Italia spesso ricordata con  esattamente la stessa formula “clear and present danger”, fin dagli  anni Sessanta e Settanta da Guido Calogero, filosofo della politica  certamente liberale e democratico.  Ovviamente Feltri non grida dalla tribuna di una piazza con il popolo  pronto a impiccare il traditore Masaniello in piazza Mercato. Nessuno  spirito censorio dunque. Ma è bene che si sappia chiaramente dove si  pone rispetto al buon giornalismo con scelte di questo tipo. Gli  italiani sono in declino? Se il telegiornale dice che “Garlasco è il  giallo clou dell’estate” è possibile che nessuno dica niente. se un  giornale nazionale gioca con la voglia di impiccare, ci sono o no  delle responsabilità etiche e professionali in coloro che hanno ruolo  nella formazione del senso comune?  A Parigi Nicolas Sarkozy (presidente di destra) ha varato una  “politica di civilizzazione” utilizzando una invenzione linguistica di  Edgar Morin (sociologo di sinistra). Insomma non siamo nel campo degli  schieramenti, ma della civiltà.  In Italia alla ribalta pochi maestri, professori, studenti,  scienziati. Molti demagoghi. Anche nel giornalismo.  L’orizzonte domestico  Il secondo elemento forte è “l’orizzonte domestico”. Ho sentito per la  prima volta usare questa espressione per illuminare uno dei  caratteri-chiave delle difficoltà presenti in Europa da Alexander  Langer, un uomo straordinario che ha messo la sua vita sull’orizzonte  della civile convivenza, non solo in Sud Tirolo, ma nella  ex-Iugoslavia. Il suo scoramento fu totale quando non riuscì più a far  parlare insieme, a Dubrovnik, slavi, musulmani, ebrei e cristiani. “Si  spareranno addosso”.  In Italia non siamo a tanto, i fucili di Bossi sono una cattiva  metafora. Ma l’orizzonte corto è un fatto. Il risentimento sull’euro è  superiore all’apprezzamento della pace stabile tra europei che, con la  moneta unica, hanno cancellato le proprie guerre interne che fino a  ieri hanno ucciso milioni di persone.  Rifiuto delle èlite e orizzonte domestico sono insomma dati di  fatto, il terreno su cui si giocano le decisioni dei cittadini. Il  tutto rumoroso: come dice giustamente Gillo Dorfles, un eccesso di  segni e immagini confonde anziché chiarire. Abbiamo più informazione  primaria, peraltro tendenzialmente gratuita. Ma non abbastanza  conoscenza. I cittadini non hanno i saperi necessari per essere  protagonisti: l’aria cattiva delle città minaccia i loro bambini, ma  lo sanno genericamente e non sono in grado di eleggere chi pone l’aria  pulita come priorità. Si caricano di acqua nei supermercati, come  quando andavano a prenderla alla fontana ai primi del Novecento.  Adesso però la pagano anche. Nè vedono quanto è stato importante avere  l’acqua da bere dal rubinetto di casa. Non sono liberi. E il  giornalismo non fa la sua parte. È indispensabile, ma non c’è. O,  meglio, è evanescente. Non solo in Cina, in Russia, in Medioriente.  Da tempo ci si affanna per capire se il giornalismo sopravviverà e  come. Qualcosa ormai si sa: 1) Non moriranno i media di qualità.2) la  qualità sta soprattutto nella credibilità.3) La credibilità nasce  dalla indipendenza.  In verità questa è la formula del giornalismo che manca. Un colpo  gliel’ha dato anche l’11 settembre. Perfino il New York Times ha  subito le falsificazioni che hanno portato alla guerra sbagliata in  Iraq, frutto del marketing e non lo dico come metafora. La società  Rendon Group, incaricata dal governo di Washington, ha gestito l’esule  da Bagdad che sosteneva di aver visto le armi di distruzione di massa.  Nonostante la conferma che diceva il falso (prove con la macchina  della verità di Tailandia), il materiale è stato “passato” ai media al  massimo livello.( “Rolling Stone”, “The man who sold the war”, 17  novembre 2005). E il Italia? Per più di dieci anni le immondizie hanno  piano piano preso una intera regione senza che i media vedessero  nulla: nella relazione parlamentare sui rifiuti si racconta di 50  camion appena comprati dall’ufficio del commissario e subito rubati  tutti insieme. Perché non abbiamo letto la storia? Abbiamo dovuto  apprendere dalla Corea del nord che c’era diossina nella mozzarella.  Un litro di latte fresco a un euro e 70 provoca stupore; ma a nessuno  viene in mente di spiegare perché nei supermercati di Barcellona costa  65 centesimi e 90 ad Amsterdam.  Il giornalismo insomma serve più di prima e ce n’è meno di prima.  È questo che ci ha riportato a Fiesole.  Che cosa possiamo fare noi? Rispetto al passato ci sono modi diversi  di comunicare e anche di fare movimento. E non mi riferisco né ai  girotondi, né a Grillo. Tutti gli strumenti sono ancora presenti, ma  il meccanismo per parlare ai singoli e avere con loro sintonia non si  esaurisce con le prese di posizione e le opinioni ancorché puntuali.  Sono scettico. Temo che sia come partecipare a un talk show  gigantesco. Dobbiamo raggiungere i cuori e le menti. Come Benigni con  Dante, Dario Fo in teatro, Walt Disney con Biancaneve, Stravinsky con  “Histoire du soldat”, Charlie Chaplin con “Luci della città”. Non si  richiede la patente di genio, ma il mestiere vero del giornalista.  È davvero importante che la giornata del 12 maggio abbia trovato il  valore primario di cui abbiamo bisogno: l’indipendenza. Lo statuto  dell’impresa giornalistico e l’autonomia della Rai dai partiti sono  due applicazioni sul campo di questo valore.  Per il primo tema non credo che si arrivi a una legge. È un obiettivo  sul quale coinvolgere Stefano Rodotà e Roberto Zaccaria che l’hanno  ricercato fin dai primi anni Settanta. Due colleghi hanno anche  delineato proposte operative: Massimo Mucchetti (“Il baco del  Corriere”) e Enzo Marzo “Le voci del padrone”. Chiamiamo anche loro.  Personalmente devo dire che l’indipendenza garantita da un assetto  giuridicamente valido è il sogno al quale lavoro da oltre trent’anni.  La proposta che porto è esattamente quella di Luigi Einaudi e Luigi  Albertini. La creazione di un cuscinetto che separi gli interessi non  editoriali degli azionisti dalla gestione dell’informazione affidata  ai giornalisti. Una ottica, dunque, liberale compatibile con il pieno  rispetto della proprietà. Modello Economist, nato negli anni Trenta e  tuttora funzionante alla grande.(“ Presenza di un organo indipendente  dalla proprietà con potere di veto su due momenti fondamentali della  vita del giornale. Nomina e rimozione del direttore e cessione di  quote proprietarie” secondo una sintesi di Diego Della Via, da  chiamare nel gruppo di lavoro, giovane studioso laureato, a Padova,  con una tesi proprio sulla struttura che garantisce l’indipendenza  dell’Economist).   Per la Rai, lo schema Bbc che è anche alla base della riforma  introdotta da Zapatero in Spagna. La sinistra Rai è d’accordo? Spero  di sì.  Come può agire in concreto Fiesole? Mi convincono i due incontri  l’anno e i gruppi di lavoro aperti. Però sento il bisogno di ragionare  insieme per andare oltre.  Quando è passato il tempo delle assemblee affollate (valide  ovviamente oggi solo davanti a grandi fatti diretti e specifici), ho  trovato efficace la tecnica di diffondere informazioni significative  che, di per sé, costituivano azione sindacale, creavano community su  una singola vicenda, trovavano adesione nei giornalisti. Esempio:  l’offensiva nei media ai tempi di “Luna Rossa”, esagerata. I  quotidiani pubblicavano due pagine al giorno anche quando non c’era  vento perché Tods e Prada avevano entrambi prenotato piedi di pagina.  Il racconto in venti righe dal cdr a tutti i colleghi del ridicolo  (con magari lettera di protesta al direttore) “era” l’azione  sindacale. Oggi chiediamo ai cdr di allargare la mail list informativa  a tutti coloro che hanno un contratto, anche non giornalistico, a  freelance e collaboratori. I redattori hanno perfino interesse a  coinvolgere e rendere più forti gli esterni.  Manderei insomma a una mail list larga non solo opinioni, ma anche  fatti, notizie trovate e magari costruite da noi o in rapporto con  “Articolo 21”, con “Lsdi”, con le redazioni create dalla fondazione  “Libera”. Pensavo, in verità, a due esempi banali.   1) Una inchiesta sul prezzo del latte fresco in Europa, fatta magari  con le scuole di giornalismo in collegamento con corrispondenti dei  grandi giornali o agenzie o tv (raccontando la filiera per scoprire  dove sta l’anomalia italiana).  2) Una inchiesta, più complessa sui rifiuti partendo dai 50 camion  rubati a Napoli.  Poi iniziative più strutturate: Lsdi.it sta mettendo in piedi, con  Maria Itri (salvatrice delle carte di piazza Fontana che stavano  marcendo) uno studio sulle fonti usate dai giornali italiani. È da  appoggiare, sia con risorse Fnsi, sia con disponibilità a far da ponte  nelle singole realtà e città.  Non abbiamo tutte le risposte. È però certo che ripartire dai Fiesole  è il primo passo giusto.
       
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