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Freelance, non capire è un po' morire


di Giuliano Modesti Finalmente sembra che il nostro Sindacato abbia deciso di affrontare il problema del “lavoro autonomo”. Ma esiste davvero ai nostri vertici e in tutti i colleghi una chiara consapevolezza del peso che questa altra faccia della professione ha nel presente e per il futuro della nostra professione? E, soprattutto, c’è veramente la volontà di agire concretamente, anche rinnovando strutturalmente il Sindacato, come è ormai inevitabile di fronte alla realtà di un mercato editoriale che punta alla cancellazione di tutte le regole, quelle economiche e quelle etiche?    Il lavoro autonomo è una condizione sempre meno configurabile come scelta individuale di una libera professione, ma, piuttosto, costrizione a sottostare a diverse forme di precariato, di lavoro scarsamente contrattualizzato e retribuito o praticamente in nero. Siamo di fronte a una crescente deregulation che non colpisce soltanto i colleghi che ne sono oggi vittime dirette, ma costituisce un enorme rischio per chi ancora è un “dipendente in regola”, mina le fondamenta del nostro Sindacato e degli altri Organismi di categoria, penalizza sempre più pesantemente la qualità e la libertà dell’informazione. Non è soltanto una questione di tariffari, tempi di pagamento e forme di tutela per chi collabora in autonomia; è la situazione spesso drammatica dei moltissimi giovani che lavorano a tempo pieno, esternamente e internamente alle redazioni, per i quali una qualsiasi forma di contratto giornalistico resterà per sempre un miraggio; ma anche di tanti colleghi non più giovani che vanno a ingrossare le fila dei precari e dei sottoccupati, lontani ancora dall’età della pensione. È il quotidiano ricatto ai contrattualizzati che “non rendono abbastanza”. Il nostro Sindacato - insieme agli altri Organismi di Categoria - deve porre un limite a questo sfascio. Il Sindacato deve recuperare forza e credibilità, richiamando a sé e dando voce unitaria a tutti coloro che esercitano a tempo pieno la professione e per i quali il giornalismo è l’esclusiva fonte di reddito (o almeno quella abbondantemente prioritaria). Per questo, a mio avviso, un improrogabile passo da fare è un censimento completo di tutte le posizioni giornalistiche fuori regola o in regola “parziale”, con seri controlli presso tutti gli editori, grandi, medi e piccoli. Non credo che possa essere sufficiente un “monitoraggio” indicativo sulle tendenze in atto, come quello avviato nello scorso autunno dalla Commissione Lavoro Autonomo, per molti aspetti “dilettantistico” e, peraltro, per quanto ne so, rimasto arenato da qualche parte. Una iniziativa che, comunque, ben difficilmente potrà dirci di più di quanto è già stato ottimamente documentato dalla recente indagine pubblicata da Lsdi (http://www.lsdi.it/ebook/giornalismo-il-lato-emerso-della-professione/). Soltanto un censimento a tappeto potrà darci un quadro preciso delle diverse situazioni, redazione per redazione, e potrà indicarci le opportune strategie di intervento. Evidentemente un lavoro di questo tipo richiede un grande sforzo, umano ed economico, da parte del Sindacato. Ma è uno strumento importante, da valutare con attenzione in tutta la sua valenza potenziale: infatti, potrà anche costituire un forte segnale di “vitalità” da lanciare alle controparti e a tutti i colleghi, anche quelli (sempre più numerosi) che oggi non si riconoscono nel nostro Sindacato. Non possiamo più essere un Sindacato che rappresenta soltanto una parte della Categoria,  quella destinata a essere sempre più minoritaria. Non possiamo condannarci da soli a una inesorabile estinzione. Il Sindacato deve ripensare a se stesso, deve avere la capacità di rinnovarsi, per rappresentare, nell’interesse comune, tutti i professionisti del giornalismo: dipendenti, collaboratori, precari e abusivi. È, per tutti, una questione di sopravvivenza. E, in un Sindacato rinnovato, devono necessariamente avere spazio rappresentanti dei colleghi “autonomi”, ai quali deve essere garantito in tutti i sensi il diritto a svolgere attività sindacale, in particolare per tutelarli da qualsiasi forma di “ricattabilità”. Ciò significa, anche e forse soprattutto, che si deve pensare a come possono essere impegnati “a tempo pieno” nell’attività sindacale liberi (?) professionisti che, a differenza dei colleghi dipendenti, non hanno per questo una copertura economica. E mi chiedo anche quanti dipendenti hanno oggi la possibilità di dedicare all’attività sindacale tutto il tempo necessario (contatti con le redazioni e i Cdr, corsi per i quadri, confronti con gli editori eccetera) senza mettere a rischio la propria posizione lavorativa. È un’eresia pensare a un certo numero di colleghi assunti dal Sindacato per svolgere costantemente importanti funzioni operative? Potrebbero essere scelti con un meccanismo elettivo o per concorso, onde scongiurare corse al cadreghino e clientelismi vari.  Credo che questa ipotesi, nell’ambito di una necessaria riforma del Sindacato, meriti un’attenta riflessione.
       
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