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E' solo l'Ordine che non funziona?


di Michele Urbano La deregulation della professione giornalistica sul fronte delle regole contrattuali e di quelle deontologiche non è un fenomeno recente. L’inizio del processo si può far coincidere con il passaggio epocale tra la composizione a caldo e quella a freddo. A volere storicizzare, nei grandi santuari della professione, il modello organizzativo basato sulla centralità della redazione, comincia a manifestare la sua obsolescenza all’inizio degli anni ‘80 quando il “modello Repubblica” nelle cronache cittadine - un desk forte, un gruppo ristretto di cronisti esperti e un numero illimitato di giovani collaboratori - venne rapidamente imitato da tutti i grandi giornali. In realtà, la prima spallata al sistema sancito dalla legge del ‘63 istitutiva dell‘Ordine - che fotografava un modello ben collaudato che affondava le sue radici nell’Ottocento - l’avevano data negli anni Settanta le radio private. Che - anche grazie ai bassi costi di avvio - avevano avuto un successo travolgente inventando nuovi modelli di comunicazione diretta con il pubblico. Sono le radio private che per prime mettono in discussione il vecchio confine - fino ad allora abbastanza rigido -tra intrattenimento e informazione. Un nuovo approccio, che non solo rendeva materialmente impossibili i controlli deontologici (anche per il numero incredibile delle emittenti) ma faceva entrare in fortissima tensione una contraddizione latente tra il mestiere d’informare e il diritto, costituzionalmente tutelato, di libera espressione. Quasi quarant’anni dopo, questo quadro, già all’origine molto problematico, si è ulteriormente enfatizzato.Lo sviluppo tecnologico ha infatti creato nuovi strumenti di comunicazione (ricordiamo internet ma ricordiamo allo stesso tempo che una decina di anni dopo il successo delle radio private venne il boom delle Tv locali che - vale la pena ricordarlo - tutt‘oggi, in Italia, sono circa 750). E, a sua volta, il moltiplicarsi delle offerte comunicative ha imposto al mondo dell’impresa, delle autonomie locali e, più in generale, della politicala necessità di fornirsi di personale specializzato capace di gestire la comunicazione esterna (e per i grandi gruppi anche interna). In conclusione, quasi 40 anni dopo l’avvio di un gigantesco processo di innovazione, almeno quattro concetti vanno tenuti a mente: 1) che le forme di giornalismo si sono moltiplicate (carta stampata, radio, Tv, internet) e cheproprio a causa dello sviluppo dei canali informativi un grande spazio è stato occupato dall’informazione istituzionale (gli uffici stampa) sia in termini quantitativi che qualitativi; 3) che con l’allargamento quantitativo del “circo” informativo i ruoli giornalistici si sono specializzati fino a esprimere professionalità specifiche, circa l’uso tecnico del media di riferimento, sempre meno intercambiabili; 4) che la tensione tra il diritto di libera espressione e la professione giornalistica si è aggravata parallelamente all‘imporsi di un modello di informazione che fa largo uso sia dell’info-entertaiment, sia dell’opinionismo (quest’ultimo scandalosamente favorito dalle provvidenze pubbliche). 5) che i valori che definiscono la professione giornalistica già concettualmente “aperti” (o, se si preferisce, potenzialmente indefiniti) si sono ulteriormente generecizzati. Il quadro odierno Al 30 settembre 2007 i giornalisti iscritti erano 101.221. Escludendo pensionati, praticanti, elenco speciale e stranieri, i giornalisti attivi alla stessa data erano:56.354i pubblicisti; 20.648 i professionisti. Oggi si può diventare giornalisti professionisti in quattro modi diversi. Arrotondando: 1) nel 45% dei casi con 18 mesi di praticantato previo contratto di assunzione presso un’azienda editoriale e successivo esame professionale; 2) nel 35%con il praticantato d’ufficio (ossia con un riconoscimento da parte dell’Ordine regionale) 3) nel 20% (esattamente è il 17%) grazie a un praticantato svolto presso una delle scuole di giornalismo riconosciute dall‘ordine nazionale. 4) si può infine diventare giornalisti pubblicisti presentando una documentazione lavorativa soggetta - questo dimostra a l’esperienza sul campo - a regole alquanto discordanti tra ordine regionale e ordine regionale. Prima domanda: esiste qualcosa di analogo per le altre professioni? Seconda domanda: al di là delle polemiche scuole sì scuole no, praticanti d’ufficio sì, praticanti d’ufficio no, si è mai riflettuto sul significato di un quadruplo canale di accesso? Non è forse una metafora perfetta per una categoria in completa crisi d‘identità? Una crisi d’identità profonda verso la quale in questi anni siamo riusciti a dare solo risposte funzionali senza mai tentare di andare alle origini delle cause. Risposte funzionali che sono arrivate sul fronte ordinistico accettando come inevitabile il quadruplo canale di accesso (con lo scandaloso boom dei praticantati d’accesso e il moltiplicarsi delle scuole di giornalismo senza controllo qualità) e sul fronte sindacale prima (tre o quattro contratti fa) con la parificazione contrattuale tra pubblicisti e professioinisti (della serie: a pari lavoro, pari salario) e poi con la teorizzazione dei diversi “giornalismi”: principio che in pratica ha trovato conferma nel contratto Aeranti-Corallo per i giornalisti delle Tv locali come strumento di emersione e nell‘avvio di una faticosissima trattativa (tuttora in corso) per il riconoscimento del contratto Fnsi agli addetti stampa della pubblica amministrazione. Insomma, la fotografia di una categoria ripiegata su sé stessa, prigioniera di un modello culturale ormai condannato se non altro dall‘evoluzione tecnologica. Attenzione: è una crisi che non vale solo - come già abbiamo sostenuto - per i modelli valoriali della professione, vale anche per i modelli di rappresentanza interni alla categoria. Un consiglio nazionale dell’Ordine di 140 eletti non può essere certo un modello di efficienza e non può certo pretendere coerenza da ordini regionali che in nome dell’autonomia camminano (lentamente) sempre in ordine sparso. Si aggiunga la “professionalizzazione” degli incarichi elettivi sia nell’Ordine che nel sindacato;si aggiunga il peso crescente negli organi dirigenti della componente pubblicistica (che, ricordiamo, per definizione, svolgono - o dovrebbero svolgere -un altro lavoro).Si aggiunga, infine, un tasso di litigiosità interna come espressione di interessi di potere (talvolta, davvero terra, terra). Professionisti e pubblicisti Se si tengono a mente tutti i tasselli di una crisi che viene da lontanonon si può che convenire sulla drammaticità della paralizzante crisi che oggi sta attraversando l’intera costruzione istituzionale a presidio dell’autonomia della professione giornalistica. Un esempio. I rapporti tra pubblicisti e professionisti stanno diventando paradigmatici della grande confusione che regna sotto i cieli del giornalismo. Da una parte i professionisti che lamentano una condivisione con i pubblicisti sempre meno sopportata; dall’altra i pubblicisti che sempre meno accettano un ruolo subalterno. Entrambi dimenticano che ai confini del loro ormai effimero regno si accalcano autentiche masse di precari senza diritti che spesso non hanno nessuna speranza - e a volte nemmeno il tempo e la voglia - di diventare né professionisti, né pubblicisti. E comunque, mai, che gli eterni duellantitentino di dare una risposta all’unica domanda realistica capace di far avanzare la discussione: ha senso nel terzo millennio una distinzione tra pubblicisti e professionisti? Ha ancora senso il doppio albo? Appunto, ecco la domanda scomoda ma ineludibile che ritorna: quali sono le peculiarità della professione giornalistica? Attraverso quali e quante specializzazioni si deve articolare? E in quale forma democratica devono essere rappresentati questi “giornalismi”? Bisogna esserne consapevoli: posto così, il problema, potrebbe produrre un terremoto concettuale con effetti radicali sull‘attuale sistema di garanzia e rappresentanza. Cancellerebbe l’Ordine nato dalla legge del 63, inciderebbe profondamente sul sistema di rappresentanza e modificherebbe inevitabilmente l’attuale quadro di garanzie sindacali e istituzionali (dai gruppi di specializzazione della Fnsi per arrivare all’Inpgi e alla Casagit). Salverebbe però l’orgoglio di una professione che se non reagisce è destinata a un rapido, ulteriore, declino sul piano dell’immagine sociale (e della sua capacità contrattuale). Una professione che per tentare di guarire deve avere la forza prima di guardarsi allo specchio e poi di individuare una difficile, forse dolorosa, terapia.
       
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