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Corsi e Ordine, chi giudica e con che regole?
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di Oreste Pivetta Da Radio Londra apprendiamo che l’esecutivo del consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha bocciato sette corsi di formazione (su quattordici) proposti dall’Ordine lombardo. Noi milanesi del Cts, comitato tecnico scientifico, non ne sappiamo proprio nulla, per quanto il regolamento (approvato dal Ministero e pubblicato nel Bollettino ufficiale) qualche responsabilità ci attribuisca (naturalmente l’abbiamo fatto presente agli altri colleghi di Cts). Ma pazienza. Nessuno è indispensabile. La motivazione addotta dal medesimo esecutivo: sono corsi di valore culturale, privi però di contenuti relativi alla professione. Motivazione che non fa una piega: se la formazione è “professionale” anche i corsi di formazione dovrebbero essere “professionali”. Però è evidente che sulla “definizione”, cioè sulla distinzione “professionale-culturale”, per i giornalisti in particolare, si potrebbero organizzare talk show all’infinito. Un esempio. Un corso di storia contemporanea sulla seconda guerra mondiale oppure su un film come “Shoah” di Claude Lanzmann (lo cito non a caso, perché “Shoah” è un altissimo esempio di giornalismo) o sul rapporto Craxi-Berlinguer come lo si può definire: professionale, culturale, culturale e professionale? Per curiosità leggo alcuni titoli, i primi che mi capitano sotto gli occhi, dalla piattaforma Sigef (quindi si tratta di corsi con tanto di imprimatur): “Giornalismo tra aviazione e spazio”, “Ryszard Kapuscinski & Bronislaw Malinowski: Le tracce dell'altro / Spuren des Anderen” (bellissimo, purtroppo sta a Bolzano, altrimenti lo seguirei di corsa, professionale o no), “Come nasce un farmaco: i rischi delle informazioni fai-da-te sul web” (qui si torna a Milano), “Israele e i palestinesi nell’era di Trump”, “La prevenzione delle malattie croniche: come vivere e comunicare la lotta ai tumori”... Non mi sogno neppure di giudicare. Mi sembrano tutti argomenti di grande interesse... e constato come, almeno considerando i temi proposti, la qualità sia in genere alta. Ma considero pure come distinguere ciò che è professionale da ciò che non lo è, fissare un confine, distribuire voti sia assai arduo, persino temerario. Invece il nostro esecutivo nazionale non esita a usare a sua discrezione la matita rossa, bocciando corsi promossi dagli Ordini regionali e ripromossi dalla segreteria ristretta del Comitato tecnico scientifico. Benissimo. Bocciati insieme un Ordine regionale e la segreteria del Cts. Non è simpatico, anche se qualcuno coltiva la convinzione che l’esecutivo tutto possa. Però leggo dal regolamento: “Per la valutazione delle offerte formative il Cnog si avvale del proprio Comitato Tecnico Scientifico (CTS). Il Comitato esecutivo del Cnog attribuisce i crediti formativi alle singole attività comprese nei Piani di Offerta Formativa (POF)“ (comma 2, articolo 7). Prima osservazione: che significa “si avvale”? Seconda osservazione: sembra leggendo che il Comitato Esecutivo del Cnog sia legittimato a distribuire crediti, ma non a sindacare sui contenuti di un corso, proposto da un Ordine regionale e approvato dal Cts. Si obietterà che l’articolo 3, al comma due, attribuisce al Cnog il compito di esaminare e valutare “le offerte formative inserite nei programmi degli Ordini regionali e attribuisce i relativi crediti di uniformità su tutto il territorio nazionale”. Sottolineo: attribuisce al Cnog, cioè al Consiglio nazionale (peraltro sulla base di una griglia di riferimenti molto pratici: date, costi, titolo, relatori, durata, sponsor, crediti, senza che mai si entri nel merito). Forse sarebbe il caso che il Consiglio nazionale decidesse che cosa deve fare il Cts, quali margini di autonomia gli debbano venire garantiti in materia di formazione, se il Cts sia maggiorenne o minorenne, se si debba davvero valutare la qualità di una proposta formativa e come (torniamo all’idea del gradimento, ma la banale richiesta di consentire a chi segue un corso di votarlo in piattaforma viene da mesi se non da anni accantonata), perché è spiacevole ascoltare proteste dei partecipanti o sentirsi attribuire giudizi di colpevolezza che non si meritano e che forse non si merita nessuno. Perché è evidente: c’è una ambiguità in sé nel concetto di “formazione” e forse sarebbe il caso di immaginarne una fisionomia molto più ristretta, più limitata, più professionale appunto: “professionali” sono di sicuro corsi (leggo ancora dalla piattaforma Sigef) come “Tecniche e linguaggio della comunicazione politica”, “Video Editing” (a pagamento), “Distribuire i contenuti digitali” (a pagamento), “La deontologia del giornalista attraverso le decisioni dell'Ordine riassunte nei massimari”, “Quando i minori fanno notizia. Il diritto di cronaca e il diritto di tutela”, eccetera eccetera. Deontologia e tecnica dunque (in modo particolare le nuove tecniche). La formazione potrebbe apparire più funzionale all’esercizio della professione, più vicina a qualche obbligo di legge e di morale. Lasciando ai licei, ai corsi universitari e alla lettura di qualche buon libro quella crescita culturale che ogni giornalista dovrebbe sentire il dovere (e l’esigenza) di cercare e di cercare lungo tutto il corso della propria esistenza, professionale o meno.