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Chi comanda al cuore. Non solo del Corriere


di Oreste Pivetta Raffaele Fiengo - in questo caso posso evitare la presentazione dell'autore - ha scritto un libro di grande interesse. Lo si potrebbe persino definire un romanzo di formazione, perché racconta proprio di una vita "in crescendo" da un'età relativamente giovane. Basterebbe, per precisione, aggiungere l'aggettivo "sindacale", perché in queste pagine corre il lungo percorso di Fiengo al Corriere della sera, a partire dalla fine degli anni sessanta, dalla parte del sindacato, nel comitato di redazione spesso e comunque sempre su quel fronte non sempre comodo e alle prese con le più impegnative battaglie, quelle ideali. Per i soldi si è sempre venuti a patti. Se ci sono di mezzo gli ideali, se ci sono di mezzo la democrazia, l'onestà, l'innocenza di un giornale (quindi di un paese), è difficile spuntarla. Il titolo: "Il cuore del potere". Sarà il "cuore" di Fiengo che batte dentro le stanze di un centro del potere. Sarà la testimonianza che lì, in quelle stanze, sta il potere. Ma questa lettura non mi convince, per la semplice ragione che tutto il racconto  di Fiengo sta a dimostrare che il potere non sta in via Solferino, che il Corriere è il braccino armato del potere e che il potere sta altrove, di volta in volta, durante il fascismo e dopo il fascismo, negli anni della ricostruzione e in quelli della Montedison, del Banco Ambrosiano, della Loggia P2, delle banche, dei petrolieri, di Berlusconi, della Fiat, di Romiti, di Mediobanca, di Craxi, dei cosiddetti patti di sindacato.  Di padrone in padrone. Di rado alla luce del sole, per lo più nell'ombra, come ad esempio insegnano le cronache della loggia massonica, ben ricostruite, con Licio Gelli, Rizzoli, Tassan Din, Di Bella. Ricordiamo questi nomi e quegli anni e quell'impronta sempre netta, ma non sempre subito percepibile, sulla libertà di informare e sulla indipendenza di un giornale e del giornalismo, libertà e indipendenza per le quali al Corriere Fiengo sembra aver tenacemente combattuto, con brillanti esiti parziali (magari quando nel paese era alto il senso dei valori democratici, quando i movimenti sociali e politici muovevano in quella direzione, quando comunque una tensione ideale e culturale animava la società civile), con dichiarazioni ufficiali, documenti, patti, contratti. Ma alla fine è una sconfitta. La testimonianza di Fiengo è un de profundis per la presunta vantata pubblicizzata autonomia del Corriere della Sera, solo un'illusione, coltivata abilmente: ne va del successo, delle copie vendute. E' un de profundis per il sistema dei media in Italia. Le prime righe  (all'introduzione) sono un epitaffio senza appello. Non concede nulla Fiengo: "Ho scritto questo libro perché in Italia ci sono i giornalisti, ma non c'è il giornalismo...". Verrebbe voglia di fermarsi qui. Però è bene continuare, per aver chiara la rete dei poteri, aver chiari i meccanismi dei poteri e insieme miopia, arroganza, brutalità dei poteri. In alto e in basso. Le veline corrono da sempre. Non correvano solo al tempo dell'Agenzia Stefani. Adesso è peggio. E' aumentato nei bilanci il peso della pubblicità, fino a diventare determinante, e quindi sono più vincolanti  le prerogative dell'inserzionista. S'è aggiunto il marketing che conta le parole e indica quelle giuste, con inoppugnabili sentenze dettate dal presunto gusto dei lettori: là dove si clicca di più (è l'on line che detta legge sul cartaceo). Altrimenti non si vive. La debolezza del sistema non lascia margine all'immaginazione, quando il sistema è il paese e non è solo l'editoria. Quando qualsiasi giovane giornalista che si è inventato un sito internet per campare ti spiega che deve scrivere così e così, altrimenti la pubblicità non arriva e lui con che cosa mangia. Abbiamo vissuto momenti migliori? Fiengo suggerisce di sì. Ma i "momenti" sono "eccezionali". Fiengo cita il rapimento Moro, la strage di Capaci. Fiengo ricorda anche i giorni della strage di piazza Fontana (cominciando da una inspiegabile censura del Corriere) e  ricorda i titoli. Cinematografico:  "Valpreda è perduto. La furia della belva umana" (Corriere d'informazione). Cronistici: "L'anarchico Valpreda arrestato per concorso nella strage di Milano" (Corriere della sera), "Arrestati gli assassini" (Il messaggero). Romanzato: "Il mostro è un comunista anarchico ballerino di Canzonissima: arrestato" (Roma). Proprio allora, di fronte alle verità di comodo fornite dai ministeri (la pista anarchica) i giornalisti vollero reagire. Non si piegarono, rifiutarono i comunicati stampa della questura. Se ne discusse a lungo. Si tennero assemblee. I più vecchi ricorderanno. Fiammate, appunto. Del presente sarebbe meglio non dire. Fiengo scrive ovviamente delle varie crisi politiche, editoriali, finanziarie che hanno via via colpito anche il Corriere. Simbolicamente si riassumono nell'atto di vendita del palazzo di via Solferino, strenuamente avversato dal comitato di redazione per il valore simbolico di un palazzo di modesta architettura ottocentesca (lo realizzò nel 1908 Luca Beltrami, l'architetto che costruì la Torre del Filarete al Castello nel 1908). Alla fine è stato un pareggio: il palazzo è stato venduto, la redazione del Corriere è rimasta al suo posto, in affitto, a contemplare gli antichi legni. Il futuro del giornale non si dovrebbe fondare sui mattoni, ma  non so proprio su che cosa si possa fondare: sull'autorevolezza, sulla qualità, sulla fedeltà dei lettori, ma tutto questo che è tantissimo non basta di certo per una macchina tritura soldi come è il Corriere. La cui ultima sorte, per ora, lo ha trascinato nel campo di Urbano Cairo, padrone non bello non prestigioso come potevano apparire le banche o i grandi finanzieri di un tempo, ma pur sempre un editore (Duepiù, Diva, Donna) presidente del Torino Calcio. Potrebbe valere per lui la legge del mercato secondo Fiengo: "Se io fossi  proprietario del New York Times, il ragionamento sarebbe: più ho un giornale credibile più vale sul mercato, più vale sul mercato più guadagnano i miei azionisti". Ma il Corriere non è il New York Times e l'Italia non è l'America. Il mercato, asfittico da sempre, si restringe per tante ragioni,compresa ovviamente la scarsa credibilità della stampa italiana (non tutta, ovviamente). Nutrirei più speranze per un giornale piccolo, ben scritto, rigorosamente scritto (come non succede più), libero dal cicaleccio, forte nella sua identità, chiaro nei suoi pronunciamenti, orgoglioso del suo orientamento politico: credo sia importante sapere che cosa si compra e che cosa si legge, merce avariata in origine oppure un prodotto con determinate caratteristiche (come accadeva quando ancora esistevano gli organi di partito: l'Unità o l'Avanti non potevano barare). Proprio per questo penso che l'ancora di salvezza sia il lettore, che può prendere o lasciare. Ma deve saper distinguere e scegliere. E saper distinguere è difficile e raro,quando ogni specie di ambizione critica sembra sepolta dal degrado morale e culturale di questo paese. Di cui sono complici, tra i tanti, ovviamente anche i giornali
       
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