Gabriele Porro
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Senza qualità il giornalismo muore
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Come molti di voi sono stato colpito dalle parole pronunciate dalla senatrice Liliana Segre durante la seduta di insediamento del nuovo Senato,
poche settimane fa. In particolare mi sono sentito chiamato in causa, come giornalista, come comunicatore, dal suo discorso sul linguaggio di violenza e di odio che sempre più prende piede nella Rete e sui mezzi di informazione più vari, non solo on line. Con esiti spesso disastrosi, innanzitutto sulle persone individualmente, ma anche sullo scadimento del dibattito politico, culturale, sociale. E sull’imbarbarimento dei comportamenti anche quotidiani.
Questo tema mi ha ricordato che quando a fine anni Ottanta nacque il Gruppo di Fiesole, di cui noi facciamo certo idealmente parte, e di cui cerchiamo di rilanciare anche oggi alcuni temi importanti, il punto di partenza fu la qualità dell’informazione che noi offrivamo ai nostri lettori, allora non ancora digitali. Da subito ci sembrò che parlare di quello non significava certo allontanarci dal dibattito sindacale, noi che di quel tipo di militanza facevamo parte. In primo luogo, perché abbiamo sempre creduto che la qualità del nostro lavoro, dei nostri prodotti fosse (e io lo credo tuttora) comunque alla base del successo, anche di vendite oltre che di pubblico, perché presupponeva un’organizzazione, degli investimenti, dei messaggi e delle intelligenze su cui gli editori avevano puntato. E la qualità alta di tutte queste cose era ed è secondo noi un valore, anche sindacale, da difendere. Perché significa posti di lavoro, tutele nell’organizzazione, strumenti utili per le prestazioni degli operatori, attenzione al prodotto finale che si propone. Significa non considerare i mezzi di informazione e trasformarli seguendo l’unico scopo, e senso, di farne veicoli di più o meno lucrosi spazi pubblicitari.
Oggi purtroppo, in un settore in grave crisi di vendite e di risorse, lavorative ed economiche, questo discorso può sembrare quasi lunare. Nell’era in cui si smantellano quasi tutte le strutture dei giornali e dei gruppi editoriali per polverizzare, in Italia soprattutto, l’informazione in un numero infinito di piccole fonti, siti, blog, giornali, emittenti, la rivendicazione della qualità del nostro lavoro sembra un’utopia. Ma io credo che riprendere il nesso tra livello alto dei nostri prodotti e difesa delle condizioni di lavoro sia fondamentale.
Non si può fare bene il giornalista venendo pagati 5 euro a pezzo, e dovendo farne 10 al giorno per campare. Non si può raggiungere un esito soddisfacente, in primo luogo per noi stessi, di ciò che facciamo, rimanendo precari a vita, senza mezzi di produzione né una sede di lavoro, senza difese dai rischi fondamentali quali gli infortuni e le malattie. La qualità dell’informazione e della comunicazione in generale non può che peggiorare se su queste cose non si interviene. Io credo che un congresso del sindacato dei giornalisti dovrebbe riflettere e interrogarsi molto su tutto questo.
E, tornando al tema iniziale, sarebbe forse anche giusto che, tra le conclusioni del nostro prossimo incontro di febbraio, ci fosse una presa di posizione netta contro il linguaggio di odio e violenza sui giornali, in tv, sui siti, sulle piattaforme e i blog on line. Non siamo quasi mai riusciti a sanzionare veramente, tramite l’Ordine, chi in questi anni ha fatto carne di porco della correttezza dell’informazione, della tutela dei più deboli e in generale della privacy di tutti. Se l’Ordine dei giornalisti non può essere l’organo di intervento per arginare le degenerazioni, domandiamoci come altro si possa fare per combatterle.