Redazione
Visite: 387
Un suicidio da manuale, quello dell'Ordine
Redazione
Visite: 387
di Oreste Pivetta Piovono pietre. Nella nostra carriera di consiglieri nazionali dell’Ordine dei Giornalisti ci tocca di registrare anche questo, come fossimo in un film, senza meritarci ovviamente la gloria di un film (anche se una cinepresa attenta potrebbe registrare, durante un consiglio, attraverso le parole, gli atti, gli atteggiamenti, i gesti, una divertente e amara commedia all’italiana). La scena è fissa: la sala del Massimo D’Azeglio, albergo vecchio stile, fino alla decadenza, il lungo tavolo della presidenza, il tesoriere Marini, il vicepresidente Franchina, il presidente Iacopino, il segretario Pirovano, il direttore Bartolotta, alle spalle di tutti, severo e vigilante, Vittorio Emanuele II re d’Italia. L’ultima volta, all’ultimo consiglio, d’angolo è calato pure un lenzuolo bianco: vi si sono proiettate le immagini della nuova possibile sede dell’Ordine, una palazzina a poche centinaia di metri dalla stazione Termini, un affare, profittando del crollo del mercato immobiliare. Attorno, impossibile non vederle, le pietre, ciascuna con la propria storia: nomine, gruppi di lavoro, equo compenso, master, formazione, consigli di disciplina, quadro di indirizzi, ricorsi e soprattutto, salendo in ordine di importanza (e di gravità), riforma dell’Ordine e, infine, Codice di deontologia. Di fronte a questioni così importanti (non tutte, ma alcune addirittura in modo vitale), dentro una attualità drammatica per la professione (tra disoccupazione, sottoccupazione, precariato, lavoro nero, offesa di qualsiasi dignità professionale), qualcuno si attenderebbe l’unità dell’Ordine, si attenderebbe che l’Ordine mettesse fine alle piccole liti di un piccolo potere, alle gelosie, alle logiche di correnti, si attenderebbe che all’unità tendesse chi governa l’Ordine. Invece, mentre il Titanic affonda, l’orchestrina suona il valzer della discordia, seconde le note dettate da una singolare maggioranza convinta che in democrazia le minoranze debbano sparire (“non faremo prigionieri”, insegnò quel tale avvocato finito ai servizi sociali), senza risparmiarsi peraltro sgambetti e oltraggi. Vedi la storia della riforma: approvato un testo, con un discreto numero di voti di scarto, un testo presentato in contrapposizione a quello redatto da “Liberiamo l’informazione”, un animoso caporale della medesima maggioranza ha fatto il possibile, a raffiche di emendamenti, per snaturare la sua stessa riforma, provocando l’abbandono e il disconoscimento di alcuni membri della commissione che l’aveva elaborata. Risultato, come noto, che al passaggio decisivo la maggioranza “vincente” s’è ritrovata in vantaggio di due miseri voti. Un caso di suicidio. La medesima maggioranza, di fronte alla decisione di creare un gruppo di lavoro per recuperare una sintesi tra le varie proposte, ha pensato bene di dover stabilire lei medesima come si dovesse comporre la nuova commissione, ponendo il veto sul nome di Pino Rea, collega tra i più esperti in materia. S’incaricava di spiegare l’esclusione lo stesso presidente Iacopino: la colpa di Rea è di averlo apostrofato con il diminutivo di “Iaco”, sommo oltraggio, evidentemente. Insomma, un’occasione di unità s’è trasformata nel solito campo di battaglia e qualcuno ce l’ha messa tutta per riuscirci. Altro e ultimo capitolo: il codice di deontologia, comparso via e-mail, come sorprendente novità, qualche settimana fa. In consiglio il codice è arrivato quasi a fine lavori. Bisognava provvedere alla svelta, il garante attendeva la risposta, queste erano le carte (arrivate quando?), c’era poco da fare. Il Presidente aveva fretta. Di fronte a svariate perplessità, si decideva di inviare al Garante una cortese risposta interlocutoria, in cui elencare dubbi e critiche. Il garbatissimo documento indicava alcuni punti discutibili e preoccupanti “relativi al principio di lealtà, alla tutela dell’identità personale, al diritto all’oblio, alla diffusione delle immagini, alla cronaca giudiziaria, agli atti del procedimento, agli archivi personali e alle banche date di uso redazionale”, dopo aver segnalato “la speciale incisività dell’intervento del Garante che arriva a regolamentare aspetti essenziali della professione giornalistica fino a condizionarne l’autonomia”. Di fronte al voto unanime, il Presidente non poteva far altro che inoltrare il messaggio. Salvo poi ricevere una risposta non proprio cordiale da parte del Garante stesso, risposta che si riassume in alcuni capitoletti: “sincera costernazione nel leggere che la predetta bozza venga presentata quale proposta del Garante mentre è a noi inequivocabilmente noto che essa è il frutto condiviso di un attento confronto che ha visto coinvolti, per diversi mesi, la Presidenza dell’Ordine dei giornalisti e il Collegio del Garante”, “rammarico” per le valutazioni negative rispetto al “lavoro svolto”, che secondo il Garante avrebbe costituito “un’occasione importante di chiarimento e ulteriore definizione dei principi già presenti nel vigente codice deontologico al fine di adeguare quest’ultimo ai mutamenti sociali e tecnologici che caratterizzano il nostro tempo e che espongono i giornalisti a nuove sfide…”, “le determinazioni del Consiglio nazionale dell’Ordine sono, a mio parere frutto di una lettura del testo non in linea con le riflessioni e i chiarimenti formulati nei nostri incontri”, eccetera eccetera, “il Garante continuerà ad applicare il codice di deontologia vigente…”. Eccetera eccetera. Il Garante, Antonello Soro, avrebbe potuto altrimenti scrivere: “Caro Iaco, che cosa siamo stati tanto a discutere, se poi il tuo Consiglio dell’Ordine non ti dà retta… Tempo perso… Non farò altro, anche se la legge mi consentirebbe di procedere d’autorità. Tenetevi il vecchio codice…”. Da un certo punto di vista non c’è che da rallegrarsi: sventata la minaccia del bavaglio. Si potrebbe persino plaudire l’astuta regia del Presidente. Ma non si può. Non si può tacere il fatto che il Presidente Iacopino s’è tenuto nel cassetto per mesi il testo del Garante, rivendicando per sé l’esclusività della trattativa, assumendosi la responsabilità – come sta scritto nella lettera - di un codice che non piace ai giornalisti, che ne limita le libertà, che potrebbe colpire il diritto all’informazione dei cittadini, togliendo di mezzo il Consiglio nazionale (che conta ben più degli esperti esterni, che il Presidente avrà sicuramente consultato). Ma la colpa più grave di Iacopino, se ovviamente stiamo alla comunicazione di Soro, è quella di aver rinunciato a costruire un serio confronto all’interno dell’Ordine, a elaborare una controproposta di tutti i giornalisti, a offrire comunque un contributo condiviso, critico o meno. Iacopino sembra lo studente modello che svolge il compito di nascosto, per non dividere con altri qualche merito. Il “compito” in questo caso è l’assenso del Consiglio senza aver interpellato il Consiglio. Un gioco di prestigio. Perché? Un bel quesito e non vogliamo pensare male. Ma il Presidente qualche spiegazione dovrebbe fornirla. Vorremmo gentilmente invitarlo a rivolgersi questa volta a tutti i suoi centocinquanta consiglieri, liberandosi da quella pratica proprietaria cui, per paradosso, lo costringono la sua debolezza e la grottesca arroganza di chi lo ha eletto. P.s. Una nota quasi personale, per rimediare al silenzio obbligato in aula: mentre si tentava di discutere del “caso Zanzara” (le ripetute imitazioni di personaggi vari per tentare di carpire qualche confidenza ad altri vari personaggi, secondo un metodo sperimentato dalla radio del Sole24ore) un corpulento consigliere di maggioranza ha insultato (“fate schifo”) altri consiglieri e in particolare una consigliera, colpevoli tutti di aver tentato di promuovere quella discussione, di aver presentato un ordine del giorno, di aver chiesto provvedimenti (nel rispetto appunto del codice della deontologia, quello vecchio e quello nuovo, che si esprimono in materia allo stesso modo). Iacopino, sollecitato, ha risposto alla sua maniera: condanno chiunque insulta, da qualunque parte stia. Avessi potuto, avrei ricordato al Presidente che un arbitro ammonisce (cartellino giallo) o espelle (cartellino rosso) chi commette il fallo, non fa ogni volta la predica all’intera categoria dei calciatori.