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Torna Farina? E Bonini si dimette dall'Ordine


bonini_il-fiore-del-maleCon amarissime parole il collega Carlo Bonini si è appena dimesso da consigliere nazionale dell'Ordine. E subito dopo ha divulgato lui stesso il testo della lettera, perchè "sia pubblica, a beneficio di chi questo mestiere lo fa, ma soprattutto di chi non lo fa". Roma, 7 ottobre 2014 Caro Presidente, Cari Colleghi, Rubo poco del vostro preziosissimo tempo per comunicarvi le mie irrevocabili dimissioni da consigliere nazionale dell’Ordine e darvi conto delle ragioni della mia decisione. Sono diventato giornalista professionista il 15 ottobre del 1992 e sono entrato per la prima volta in una redazione a 19 anni, nel 1986. Ho da allora un solo padrone: la mia coscienza. E una sola bussola: la coerenza dei comportamenti, giusti o sbagliati che possano essere giudicati. Un anno fa, ho accettato di candidarmi per il Consiglio. Perché ero convinto - e resto convinto - che se si vogliono cambiare le cose, sia necessario mettersi in gioco. Anche a rischio di perdere, perché nella sconfitta non c’è vergogna, se leale. Ritenevo di essere in compagnia di colleghi che, pur pensandola diversamente da me, con me condividessero i principi di questo mestiere. O, comunque, un orizzonte etico minimo. Che nulla è “irriformabile”. Mi sbagliavo. E non prenderne atto sarebbe un inganno. Con me stesso, con voi, con chi, con il suo voto, ha voluto che sedessi in questo Consiglio. “Cosa gli avrà mai fatto ha cambiare idea?”, vi chiederete, dunque. E’ accaduto che il 3 settembre scorso, Renato Farina - è impossibile per me chiamarlo collega - , già collaboratore retribuito del Servizio segreto militare di questo Paese con nome in codice “Betulla”, sia stato reintegrato con voto unanime dell’Ordine della Lombardia in quell’Albo di cui faccio e facciamo tutti parte. La memoria di questo Paese è corta. Istantanea, direi. Quella dei suoi giornalisti, per lo più cangiante, variabile alle convenienze. E dunque, a beneficio degli smemorati, vi riporto testualmente quanto questo Consiglio Nazionale comunicava il 29 marzo del 2007, giorno in cui Renato Farina veniva radiato dall’Ordine con 68 voti a favore, 5 astenuti, 2 contrari e 4 schede bianche. Scriveva la commissione ricorsi: «Il comportamento di Farina resta incompatibile con tutte le norme deontologiche della professione giornalistica ed ha provocato un gravissimo discredito per l'intera categoria. E non solo in relazione alla vicenda Abu Omar e ai rapporti con Pio Pompa. E' Farina che, nelle sue difese, rivela e rivendica un ruolo in una trattativa con Milosevic, ruolo che autorevoli membri del governo dell'epoca negano abbia mai avuto. E' Farina che fa riferimento a suoi rapporti con un servizio ultra segreto statunitense (una Cia parallela agli ordini diretti di Condoleezza Rice). E' Farina che dichiara ai magistrati di aver accettato dai servizi all'incirca 30 mila euro». Sette anni sono stati un tempo sufficiente a questo Ordine per trasformare la notte in giorno. La vergogna e il discredito in perdono e resurrezione. E allora lasciate che vi racconti io un pezzo di questa storia che qualcuno ha dimenticato o forse ignora. Renato Farina, alias “Betulla”, ebbe tra i suoi “target” spionistici anche il lavoro giornalistico per “Repubblica” del sottoscritto e di chi non può più parlare, perché un infarto lo ha portato via troppo presto la mattina del 30 luglio 2011: Giuseppe D’Avanzo. Un amico di cui ho pudore a parlare. Per me, un padre non solo della professione. Nei giorni dell’inchiesta su Abu Omar e del coinvolgimento del Sismi nel suo sequestro per mano della Cia, Renato Farina osservava vigliacco i miei movimenti e quelli di Peppe. Nei nostri appuntamenti con le fonti. E se possibile anche nel giardino dell’albergo “Diana” di Milano, dove ci mettevamo a discutere sul da farsi scioccamente convinti di essere lontani da orecchie indiscrete. Ascoltava, annotava, e ne dava tempestivo conto ai suoi “handler” nel Servizio: Pio Pompa, custode per conto di Nicolò Pollari dell’ufficio riservato del Sismi in via Nazionale; Marco Mancini, allora capo della divisione antiterrorismo e oggi dirigente del Dis (Dipartimento per le Informazioni e la Sicurezza). Io e Peppe ci mettevamo la faccia, il lavoro paziente della ricerca della verità. “Betulla”, la doppiezza miserabile di chi ha venduto l’anima al Diavolo. Il nostro lavoro, le nostre vite, diventarono uno scartafaccio impilato nell’archivio dei dossier che il Servizio in quegli anni affastellava sul conto di magistrati, politici, giornalisti da “disarticolare”. Quello che vi racconto è in atti giudiziari di processi pubblici passati in giudicato e istruiti da un magistrato coraggioso come Armando Spataro, nel lavoro di una commissione di inchiesta del Parlamento Europeo sulle “extraordinary renditions” presieduta dall’allora eurodeputato Claudio Fava, di fronte alla quale deposi quale teste e parte offesa, in copiosi articoli di stampa. Qualcuno deve esserseli persi. Tre anni fa, quando Peppe è morto, la categoria si è sperticata in commossi necrologi, pubblici attestati di stima. Peppe è stato pianto e celebrato, come è giusto che fosse, come un pezzo fondante del meglio del Giornalismo italiano. Del resto, le parole non costano fatica. E il vantaggio di parlare di e per conto di chi non c’è più può avere un grande vantaggio: non comporta l’assunzione di alcuna responsabilità o coerenza nei comportamenti. Si può serenamente riprendere a fare il contrario di ciò che chi non c’è più faceva o avrebbe fatto. “Passata la festa, gabbato lo santo”, dice del resto il proverbio. Ebbene, la riammissione di Betulla nell’Ordine oltraggia non solo la memoria di Giuseppe D’Avanzo, ma soprattutto quello che ha dato al giornalismo. E il silenzio è dei complici. Lo dico a chi, in questo Consiglio, con un’ennesima cinica capriola, dovesse rifugiarsi nel pensiero consolatorio che le mie dimissioni siano per “fatto personale”. Gli stessi da cui non ho sentito dal 3 settembre in avanti levarsi una voce, sia pure flebile. Che so, un fremito, magari dopo che la notizia della riammissione di Betulla era stata resa pubblica dal quotidiano “il Fatto”. Nulla. Calma piatta. Come la doppia e ipocrita coscienza di molti che fanno questo mestiere, nascosti dal comune tesserino di appartenenza all’Ordine e dalla memoria tenera delle testate per cui lavorano. Del resto, cosa ci si può attendere da un consesso che sceglie Giovanni Lucianelli tra i membri effettivi della commissione di esame per giornalisti professionisti che sta attualmente tenendo la sua 118esima sessione (http://www.odg.it/category/categoria-notizia/notizie-esami)? E perché, vi chiederete? Chi è questo collega che giudicherà di qui al prossimo 28 ottobre dell’idoneità professionale e dell’integrità di ragazze e ragazzi con negli occhi la passione per questo mestiere? Per non annoiarvi, allego a questa mia lettera di dimissioni un dettagliato articolo apparso sul “Sole 24 ore” già nel 2006 e ne indico per comodità anche il link (http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Attualita%20ed%20Esteri/Attualita/2006/12/011206fedelissimi_degregorio.shtml?uuid=274664c0-810f-11db-88d7-00000e251029&DocRulesView=Libero). Già, anche Lucianelli è uno di noi. Direi di più: la nostra faccia dentro e fuori la categoria visto l’incarico di commissario d’esame. E, del resto, ha un mentore professionale d’eccezione, l’ex senatore e pregiudicato Sergio De Gregorio, e una lunga storia professionale che definire opaca è un eufemismo. Che ha spesso incrociato il codice penale e non per reati professionali. Farina, Lucianelli. Cos’altro vi attende e ci attende? Quale altro tradimento siamo, siete pronti a consumare? Cosa vi preparate a raccontare a chi, oggi, si sbatte per poche centinaia di euro lorde al mese credendo in quello che fa e rischiando spesso la pelle per uno scatto o per l’ostinazione di scrivere un nome impronunciabile in una cronaca locale? Butto lì un’idea: perché, contando già su Lucianelli agli esami di idoneità, non pensare a Renato Farina per la formazione permanente, magari da tenere in una sala intitolata a “Giuseppe D’Avanzo”? Non vi annoio oltre. Io, da oggi, separo la mia strada dalla vostra e renderò pubblica questa mia lettera di dimissioni che chiedo venga formalmente messa agli atti del Consiglio, perché nessuno, un giorno possa dire, “non sapevo”, “non c’ero”, “nessuno me lo ha detto”. Sono consapevole di aver perso la mia battaglia qui dentro. E sono consapevole di lasciare un lavoro a metà. A cominciare da un progetto di Riforma dell’Ordine su cui mi ero impegnato, che immeritatamente porta il mio nome e quello del collega Pino Rea, che questo Consiglio ha respinto nei mesi scorsi perché ritenuto “insostenibile perché troppo avanzato” e che personalmente mi auguro trovi prima o poi fortuna e interlocutori. A questo punto, fuori dal Consiglio. Di questo lavoro a metà chiedo scusa ai molti colleghi per bene di questo Consiglio che ho imparato a conoscere e stimare in questo anno e ai tanti colleghi che mi hanno dato il loro voto. Ma davvero non c’è posto per me in questo consesso che si è evidentemente rassegnato ad essere solo il simulacro di ciò che vorrebbe difendere e dice di voler difendere. In fede, Carlo Bonini
       
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