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Storia di Rosetta, partigiana timida


Un altro 25 aprile. Anche quest'anno ci si vede in corteo, da corso Venezia - appuntamento davanti al cancello del Planetario entro le 13,45 - a piazza Duomo: i "giampi", ossia i giornalisti iscritti all'Anpi di zona1, e colleghi ed amici aggregati. A loro e a chi non potrà essere presente un collega, anche quest'anno, offre una breve memoria resistenziale. Giordano Mariani rievoca la madre staffetta partigiana (il primo racconto familiare fu di Marco Brando, ricorderete). Buona lettura e continueremo a resistere, resistere, resistere. di Giordano Mariani Il suo nome di copertura, in codice o di battaglia, era Rosetta. Me lo aveva rivelato lei stessa, mia madre, Renata, all’anagrafe, nelle rare occasioni in cui aveva trovato la voglia, la forza (?), di riparlare di quei giorni. Degli anni che l’avevano vista impegnata nella Resistenza, giovane staffetta partigiana. Mio padre era Ariel, comandante della formazione in cui entrambi militavano. Me lo disse lui, una sera d’estate, sul portone della casa in cui ancor oggi abito. Raccontandomi di quando, un mattino di primavera di quarantacinque anni prima, in sella ad una bicicletta, era passato proprio lì dove ora ci trovavamo. In fuga dalla città dove viveva, dopo che un compagno aveva parlato, facendo il suo nome. Pochi chilometri più a sud, dopo avere pedalato per quasi venti, era entrato in una bottega di barbiere. Il compagno al quale avevano estorto nome ed informazioni, aveva descritto un giovane con la barba. Mio padre alla prima occasione possibile se ne era liberato, facendosela tagliare. Il nome rivelato era quello di battaglia. Un indizio insufficiente per poterlo identificare con certezza. Per poter risalire a lui. Ricordo ancora l’emozione con cui lessi per la prima volta il nome di mia madre, Rosetta, stampato su carta. Fu a casa di mio padre, molti anni fa e qualche tempo dopo quella serata. Ero andato a trovarlo, durante le vacanze di Natale. In uno dei quei pomeriggi in cui i ricordi stanno docilmente vicini, pronti ad aprirsi nel dono inatteso di sé. Mio padre tornò con uno di quei suoi grandi album che tanto avevo ammirato da lontano durante la prima infanzia, quando trascorrevo con lui qualche pomeriggio nel suo ufficio, dopo la scuola. Erano di dimensioni enormi, nel formato dei quotidiani dell’epoca credo, negli Anni Cinquanta. Cuciti a mano e brossurati. Non so se li comperasse o se avesse qualche legatore che glieli preparava appositamente. Non ne ho mai più rivisti di uguali. Ricordo mio padre che con pazienza certosina sottolineava con il matitone blu e rosso gli articoli da ritagliare per la rassegna stampa. Qualcuno poi credo li tagliasse e li incollasse per lui su quei grandi libri. Sfogliò il volume che aveva preso dall’archivio. Andava sicuro tra le pagine e trovò quasi subito ciò che cercava. L’elenco di chi aveva partecipato attivamente alla Resistenza, nella nostra città, pubblicato in non so più quale occasione nell’immediato dopoguerra. Fu lì, che sottolineato in rosso, accanto ai dati anagrafici di mia madre ed al suo ruolo, lessi per la prima volta il suo nome di battaglia: Rosetta. Non dissi nulla a mio padre. Non dissi che sapevo, né quel che sapevo. I miei si erano separati all’inizio degli Anni Sessanta, molto prima che il divorzio diventasse legge. Mio padre non seppe mai che cosa mia madre mi avesse raccontato. Mia madre non seppe mai che cosa mi avesse detto mio padre. Mi era sempre sembrato giusto così. Rispettare reciprocamente il passato che non avevano potuto condividere, insieme, con me. Ascoltai, come in numerose altre occasioni, il ricordo ancor vivido in lui di quegli anni. Ricco di episodi sempre diversi, sapido di una narrazione cólta ed anche storicamente ormai attestata dagli studi ampiamente diffusi. Preziosa però perché carica degli accenti vivi della testimonianza personale. E acuta, perché le descrizioni che vengono dalla presa diretta sulla storia scontano forse qualche limite nei risvolti personali, ma esprimono con messa a fuoco precisa profili e destini altrimenti smarriti o sfocati. Mia madre aveva scelto di tacere. Quasi sempre e per sempre. Solo in alcuni particolari momenti, di estrema confidenza materno/filiale o di profonda indignazione davanti a ciò che accadeva intorno a noi, si lasciava andare al racconto. Talvolta erano lacerti fulminanti che calcinavano in poche essenziali parole e nomi un’intera scena, quando non un’epoca. Talaltra erano aneddoti non privi di una nostalgia venata di malinconia, mista a felicità per la giovinezza, comunque bella perché ricca di speranza. Andata via per sempre e poi conclusa nell’epilogo della sua tensione ideale presto sfumata in troppe istanze ideali disattese e in personali disavventure della vita. Ricordo con precisione i nomi ed anche qualche cognome. Gli episodi. Il pathos della narrazione. Gli istanti drammatici e l’indignazione. La bellezza del sogno. La delusione. A 13 anni dalla sua morte, vorrei dedicare a lei, staffetta partigiana, questo 25 Aprile. Vorrei farlo raccontando un episodio, ricordando un suo ricorrente pensiero e rievocando un aneddoto di fine Anni Ottanta. Me lo raccontò più volte. In occasioni diverse. La prima, ero un ragazzo, poco più che sedicenne. Poi, un giovane sposato da qualche tempo. Ogni volta, mia madre raccontava quella stessa vicenda con identica partecipazione emotiva. Come se gli anni non fossero mai trascorsi. Alcune esperienze forti ti segnano dentro e rimangono scolpite nell’anima. La storia della valigia delle armi fu per mia madre una di quelle. Quando ne fu protagonista aveva poco più di vent’anni. Mia madre era, ed è sempre stata, anche in età matura, a detta dei tanti che la conobbero, una bella donna. Non mi fa velo nel dirlo l’essere suo figlio. Ripeto semplicemente ciò che numerosi conoscenti hanno sempre sostenuto apertamente parlando di lei, anche solo guardando le sue fotografie di quell’epoca. Una mattina della tarda primavera di quegli anni di guerra, mia madre era stata incaricata di recuperare armi, che avrebbe dovuto consegnare ad un responsabile partigiano. In quei mesi i Tedeschi erano ben presenti, insieme ai fascisti, sul nostro territorio. La località in cui avrebbe dovuto entrare in possesso della valigia di armi, era nella zona del lago di Garda. Dunque, proprio nel cuore della Repubblica di Salò. Non so e non ricordo, ma mi pare di sì, che tra i responsabili della consegna in origine, vi fosse anche mio padre. Non sarebbe una circostanza inverosimile, dati i numerosi episodi che nei suoi racconti si erano svolti sulla riva occidentale del Benaco, fra Toscolano e Maderno in particolare. I Tedeschi erano lì, erano anche e soprattutto lì. Mia madre sarebbe dovuta sembrare una giovane innamorata di ritorno da una vacanza. Avrebbe dovuto recarsi all’appuntamento con la valigia vuota, riempirla, rientrare in corriera e consegnare le armi, dopo avere attraversata l’intera città, ad Ovest. Credo di ricordare bene, nella zona del ponte, quello situato a Nord. Così fece mia madre quella mattina. Tutto andò bene fino a quando sulla corriera non salì un giovane ufficiale tedesco. Non ricordo se già sul lago stesso o poco oltre. Si sedette proprio di fronte a lei, nella fila accanto. Il giovane ufficiale parlava bene l’Italiano e naturalmente rivolse subito la parola a quella giovane sola che sedeva vicina a lui. Mia madre, questo posso testimoniarlo io stesso che ho vissuto tutta la mia adolescenza e parte della giovinezza vicino a lei, dopo il divorzio dei miei genitori, era una donna timidissima. Come tutti i timidi, dotata di una capacità di reazione, di autodifesa, che talvolta poteva sembrare, nella sua audacia ed all’occhio di un osservatore superficiale, persino sfrontatezza. Era soprattutto una donna coraggiosa al limite della temerarietà. Il suo spirito di creatura libera e ribelle non si è mai piegato. Non conosceva la parola opportunità ed era incapace di opportunismi. Proprio questo suo essere così apparentemente indifesa, le aveva dato quasi per compensazione, un sangue freddo raro. Credo che in quell’occasione fosse stato tale amalgama di qualità e di fragilità a salvarla. Rispose all’ufficiale tedesco, sostenendo tutta la conversazione senza sbavature, senza che mai la consapevolezza del rischio lasciasse trasparire il benché minimo accento di paura. Sperava. Sperava e tremava. Sperava che l’ufficiale scendesse prima della sua discesa. O, alla peggio, dopo. Mia madre non avrebbe potuto sapere che sarebbe sceso là dove era stato deciso scendesse anche lei. Ogni diversa scelta l’avrebbe esposta a rischi insostenibili e a contrattempi che sarebbero stati fatali per la missione. Quando mia madre accennò ad alzarsi, l’ufficiale, galante, balzò in piedi. La valigia, naturalmente. Mia madre avvertì il morso della fine stringerle il petto. Il peso enorme del bagaglio l’avrebbe certamente tradita, pensò. Continuò con freddezza. Sarebbe sceso anche lui. Sarebbe sceso lì, nella prima periferia ad Est della città. “Posso aiutarla?”, chiese il giovane tedesco che aveva già impugnato la valigia. Mia madre sorrideva. Continuarono a parlare. Scesero, prima mia madre e poi l’ufficiale, con la valigia alla mano. Camminarono fianco a fianco per un tratto. Non so se allora vi fosse già la grande arteria che conduce verso Nord. So che mia madre raccontava che ad un tratto l’ufficiale posò la valigia, e si accinse a congedarsi. Avrebbe svoltato a destra, mentre mia madre avrebbe proseguito, “verso casa”. L’ufficiale lasciò il bagaglio, sorridendo strinse la mano a mia madre, che ricambiò. Non ricordo se le avesse chiesto anche qualcosa di sé, un indirizzo qualche riferimento personale. Rimase fermo a guardare mia madre che si allontanava. Tremando senza darlo a vedere. Nell’ambiguo confine delle giovinezze che sigillano nei sorrisi verità inespresse, mia madre non seppe mai, e mai confessò nemmeno a se stessa, per decenni, se l’ufficiale avesse “capito”. Se la sua bellezza l’avesse salvata. Non l’aveva voluto mai sapere, nemmeno in se stessa. Consegnò la valigia con le armi ad un partigiano che, insieme ad un compagno, l’aspettava, in bicicletta, sul ponte. Dopo avere camminato lungo il tragitto previsto, ed a fondo studiato nella scansione dei tempi e dei luoghi. Non so se da sola, se aiutata da altri. Se compiendo di quando in quando soste strategiche e diversive. Ogni volta che raccontava, mi sembrava di vedere quei luoghi che conosco bene e che sono poco o punto cambiati da quei lontani giorni. Rivedevo lei e mi sembrava di vedere anche il volto e le pose dei due uomini pronti per raccogliere il testimone dalla staffetta. Gli incontri avvenivano spesso solo dopo uno scambio di parole d’ordine. Secondo prassi e dinamiche complesse. Era in gioco la vita. Un’ingenuità, un’imprudenza, avrebbero avuto sempre conseguenze e ricadute incalcolabili sulle formazioni. Sembrava di vederli, quei giovani in attesa, dall’aria finto indolente o falsamente scanzonata, che erano in realtà attenti ad ogni minimo sussulto ed indizio di pericolo. Raccontava di rado questi ed altri episodi e malvolentieri rievocava le vicende della guerra, le storie legate al periodo fascista, lo spirito di quegli anni. Ma una cosa ripeteva, quasi come un monito, e la storia successiva le avrebbe dato purtroppo spesso occasione per farlo. Non tanto e non solo in merito alla Resistenza in sé. Quanto al durante e all’immediatamente dopo. Non era la sua un’opera di revisionismo qualunquista e al dettaglio, volta a sottolineare presunti demeriti dei (non tantissimi) adamantini testimoni della prima ora. Era lo sdegno provato davanti agli opportunismi dei (tanti) convertiti del giorno dopo. Davanti al profluvio di parole non tutte credibili e all’agitarsi di personaggi non di rado improponibili, ricordava che il dolore più cocente le era stato procurato, dopo l’euforia della libertà, dalla constatazione di come tantissime camicie nere si fossero fatte nel volger di pochissimi mesi (nei casi più pronti, bastò una sola notte) all’improvviso e inopinatamente rosse. Il suo impegno sembrava volto piuttosto a dimenticare, che non a ricordare. Quando ricordava, però, si accendeva di una passione a noi sconosciuta e si capiva che se la levità della smemoratezza poteva in qualche modo aiutarla nel suo compito di dimenticare, certamente soffriva quella perdita di una parte nobile e bella di se stessa. Della vita che era stata per un periodo non breve negli anni tra i più belli nella storia di ogni creatura. Quelli della prima giovinezza. Schiva e discreta, malgrado la sua indole cordiale ed apparentemente socievolissima, non amava apparire. Soprattutto, non avrebbe voluto mai farlo in nome e per conto di un passato solo suo, che custodiva come una reliquia in qualche angolo riposto di sé e che diceva, forse cercando di convincere anche se stessa, fosse meglio scordare. So di non tradire la sua volontà e di non ferire il suo ricordo, se oggi, a distanza di 13 anni dalla sua scomparsa, a 68 e più anni da quei giorni, voglio rendere omaggio a mia madre ricordandola come fu quando era Rosetta. Ogni parola che ho scritto qui è vera, e comunque fedele a come lei la raccontò. La sua scomparsa ha rimosso anche i motivi della sua opposizione, quelli di natura squisitamente personale ed in nulla ostili al suo essere stata una donna della Resistenza. Se mai, le ragioni del suo disagio civile manifestato negli anni successivi, possono costituire un lacerto di memoria storica che dice qualcosa anche del presente. Ritrovai Rosetta anni dopo. Una sera d’inverno, mia moglie ed io eravamo andati a casa di mia madre. Era già ammalata ed era stata operata una prima volta. Fu felice, più del solito, quando le chiesi di guardare le preziose fotografie di quegli anni giovanili, di guerra e di rischio. Raccontò ancora una volta l’episodio dell’ufficiale tedesco, forse sollecitata da me e forse perché Elena non lo conosceva. Ricordò tante altre cose di quei mesi, di quegli anni. Al momento del congedo volle che prendessi con me anche alcune fotografie. C’erano anche lei e mio padre, giovani. Pochi anni fa, uno storico ha per la prima volta citato esplicitamente mia madre. In due volumi ben documentati, Rosetta è al suo posto, nel ruolo di patriota, nelle Formazioni di Giustizia e Libertà. Nel 1999, dedicando a loro un mio libro di poesia, scrissi tra l’altro: “I miei genitori sono uniti nel profondo del mio cuore e la fedeltà al loro ricordo mi apre la via alla Luce. E insieme sono anche nel Certificato al Patriota che ho appeso sopra la scrivania, che li racchiude entrambi, comandante e staffetta partigiana”. Il mondo che fu di Rosetta e di Ariel forse non esiste più da tempo. O è forse prossimo a scomparire. La Patria che avevano abitato con i loro cuori innamorati e sognanti, con l’animo colmo della sete di giustizia e di libertà, è una terra che non ha confini geografici. E’ una patria che conosce solo la misura e la frontiera che nascono nel cuore. E’ la terra che ha quale unico orizzonte l’infinito del Cielo. E’ la patria dei sognatori, terra fiorita di passioni e ideali. Fondata nei principi che sublimano la fratellanza e aliena al privilegio dell’appartenenza. Una patria sempre cercata. Sempre attesa. Sempre in procinto d’essere costruita e di nascere a se stessa. E’ la terra della speranza. Quella abitata dai sognatori di ogni tempo e in ogni luogo. Quella sulla quale credo avesse posato i suoi giovani passi anche mia madre. Rosetta. Più ancora che nella gestazione del suo grembo, sono nato e cresciuto in quella di quel suo lontano esempio. Che trovò terra e seme e senso e cielo nei giorni azzurri della sua speranza. Nella sua giovane età sbocciata al sole della giustizia e della libertà. Questa ed altre cose sul blog di Giordano Mariani: http://www.extemporalitas.org/25-aprile-rosetta/
       
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