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Sentenza della Cassazione: anche gli insulti su Facebook sono diffamazione


(ANSA) - ROMA, 16 APR - Gli insulti su Facebook, anche se indirizzati ad una persone di cui non viene fatto il nome e letti da una cerchia ristretta di iscritti, possono portare ad una condanna per diffamazione. Lo sottolinea la Cassazione che ha rinviato a nuovo processo l'assoluzione di un maresciallo capo della Guardia di Finanza che aveva pubblicato nei sui «dati personali» su Facebook la frase «attualmente defenestrato a causa dell'arrivo di collega sommamente raccomandato e leccaculo...», aggiungendo quindi un'espressione volgare riferita alla moglie di quest'ultimo. Per la frase incriminata, che aveva offeso la reputazione del maresciallo designato al posto suo al comando della compagnia, l'imputato era stato condannato dal tribunale militare di Roma a tre mesi di reclusione militare per diffamazione pluriaggravata. In Appello era stato assolto per insussistenza del fatto, poichè l'identificazione della persona offesa risultava - aveva spiegato la Corte militare d'Appello di Roma - possibile soltanto da parte di una ristretta cerchia di soggetti rispetto alla generalità degli utenti del social network, non avendo l'imputato indicato il nome del suo successore, la funzione di comando in cui era stato sostituito, o dato alcun riferimento cronologico. Nel ricorso contro l'assoluzione, il procuratore generale militare ha evidenziato come, al contrario, la pubblicazione su Facebook abbia determinato la conoscenza delle frasi offensive da parte di più «soggetti indeterminati iscritti al social network e che chiunque, collega o conoscente dell'imputato, avrebbe potuto individuare la persona offesa». La prima sezione penale della Cassazione (sentenza 16712) ha riconosciuto come la frase fosse «ampiamente accessibile, essendo indicata sul cosiddetto 'profilò» e l'identificazione della persona offesa favorita dall'avverbio «attualmente» riferita alla funzione di comando rivestita. Tra l'altro «il reato di diffamazione non richiede il dolo specifico» ma la «consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell'altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza anche soltanto di due persone». Ad avviso della Corte, «i giudici di secondo grado non hanno adeguatamente indicato le ragioni logico-giuridiche per le quali il limitato numero delle persone in grado di identificare il soggetto passivo della frase a contenuto diffamatorio determini l'esclusione della prova della volontà dell'imputato di comunicare con più persone in grado di individuare il soggetto interessato». (ANSA).
       
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