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Per fortuna c'è un giudice a Milano


di Oreste Pivetta Stop al giornalismo radiofonico che “ruba” le confidenze di chi è mandato in onda mentre al telefono crede di parlare con un amico che, invece, è un imitatore attivato dai giornalisti: lo dà il Tribunale civile di Milano che nel caso delle confidenze sul ruolo di Carlo De Benedetti nella formazione del governo Renzi, carpite al pd Fabrizio Barca dal programma di Radio24 ‘La Zanzara’, attraverso la telefonata di un finto Nichi Vendola, rimarca che “l’interesse pubblico alla conoscenza di fatti di rilievo collettivo va tutelato e perseguito nel rispetto del trattamento dei dati personali, e non può rappresentare un’esigenza superiore in nome della quale acquisire e trattare dati personali in spregio delle regole che disciplinano l’attività giornalistica”. La seguita trasmissione dei giornalisti Giuseppe Cruciani e David Parenzo il 17 febbraio 2014 aveva mandato in onda una telefonata a Barca fatta da un imitatore spacciatosi per Vendola, e l’ex ministro del governo Monti, credendo di parlare appunto con il proprio amico, gli aveva rivelato che dietro la propria candidatura (rifiutata) a ministro dell’Economia nel governo Renzi di nuova formazione c’era l’interessamento del “padrone di Repubblica”, cioè l’ingegner Carlo De Benedetti; e aveva inoltre colto nei primi passi del renzismo governante una “irresponsabilità politica” e un elevato “personalismo”. Il Tribunale, chiamato non solo da Barca… ma anche dal Garante per la protezione dei dati personali (con l’Avvocatura dello Stato) a convalidare la cancellazione dell’audio da ogni archivio e link, osserva che i giornalisti, tramite l’imitatore radiofonico, non si sono limitati a celare la propria identità ma si sono attribuiti - artificio vietato dalle norme - “l’identità di una determinata persona” “in rapporto privilegiato con l’interlocutore” “allo scopo di ottenere informazioni riservate”. Radio24 invocava l’essere “altrimenti impossibile l’esercizio della funzione informativa”, cioè arrivare alla notizia dell’asserita influenza di De Benedetti sul governo Renzi. Ma per la giudice Martina Flamini, “l’onere di provare l’esimente spetta a chi la invoca”, mentre la radio “non ha spiegato perché queste informazioni non avrebbero potuto essere svelate attraverso una inchiesta condotta nel rispetto dei principi di correttezza”… Abbiamo trascritto per intero, dal sito del Corriere della Sera, l’articolo del collega Luigi Ferrarella, articolo che ci pare di una chiarezza esemplare. Incuranti della ripetizione, vogliamo sottolineare quanto afferma il Tribunale civile di Milano: “l’interesse pubblico alla conoscenza di fatti di rilievo collettivo va tutelato e perseguito nel rispetto del trattamento dei dati personali, e non può rappresentare un’esigenza superiore in nome della quale acquisire e trattare dati personali in spregio delle regole che disciplinano l’attività giornalistica”, non ci si può quindi attribuire “l’identità di una determinata persona” “in rapporto privilegiato con l’interlocutore” “allo scopo di ottenere informazioni riservate”, Radio24 “non ha spiegato perché queste informazioni non avrebbero potuto essere svelate attraverso una inchiesta condotta nel rispetto dei principi di correttezza”… Il Tribunale omette di ricordare (forse, semplicemente, ignora il particolare) che anche l’imitatore attivato dai giornalisti è un giornalista, Andro Merkù, giornalista pubblicista e membro del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, istituzione che avrebbe tra i suoi compiti prioritari proprio quello di vigilare sul rispetto “delle regole che disciplinano l’attività giornalistica”. Chi insomma – se si volesse trarre una conclusione dalla sentenza del Tribunale di Milano – dovrebbe custodire la deontologia professionale sarebbe il primo a tradirla (dopo averla peraltro evocata in decine di documenti e di “carte” e averla proposta come asse della nuova formazione professionale). La notizia della condanna (Cruciani e Parenzo sembra siano stati peraltro solo condannati a cancellare l’audio da ogni archivio e link), ci rimanda ad una seduta del Consiglio nazionale di un anno fa quando venne bocciato a maggioranza un documento presentato dalla “solita” minoranza (“Liberiamo l’informazione”), che redarguiva quel “giornalista-imitatore” che imitando, protetto dalla rete telefonica, una volta una scienziata (Margherita Hack) una volta un politico, strappava a questo o a quello, indotti per amicizia alla confessione, notizie per alcuni clamorose. Nel caso, in replica, se ne sentirono di tutti i colori. Nel rispetto di un archetipo nazionale prevalse l'opinione che i figli sono “piezz e' core” e che per i figli si fa qualsiasi cosa e ci si può dunque camuffare, via cellulare, per Barca pur di ascoltare Vendola nelle sue strofe sincere sulla crisi del paese. Allora la solita minoranza espresse una posizione, che si potrebbe riassumere in una serie di quesiti posti all’attenzione del Consiglio nazionale: se l' incarico di consigliere nazionale dell’Ordine fosse compatibile con la pratica del consigliere Andro Merkù di strappare a personaggi della sfera pubblica racconti di fatti o opinioni, con un agire particolarmente odioso e, forse, al limite della rilevanza penale; se la questione ‘’ontologica’’ (quando il collega si fece passare, come successe nell’ aprile 2014, per Margherita Hack, strappando con un raggiro a Valerio Onida delle valutazioni del tutto personali, lo fece come ‘’attore’’ e non come ‘’giornalista’’) può essere un alibi che un consiglio regionale dell’ Ordine adotta per ‘’prosciogliere’’ il consigliere Merkù, ma questo non cancella il fatto che, in ogni caso, quel comportamento risulta radicalmente contrario allo spirito dell’ articolo 2 della legge sull’Ordine, nella parte dove si dice che i giornalisti “sono tenuti a promuovere (…) la fiducia tra la stampa e i lettori”; se sia tollerabile che un giornalista (anche pubblicista) adotti nella sua attività pubblica una pratica di inganno e di beffa, producendo un forte inquinamento di quella fiducia che faticosamente il giornalismo corretto cerca di instaurare… Tutto qui. Quanto bastò però a suscitare la minacciosa ira di numerosi affiliati della maggioranza, che tra moltissimi pubblicisti e alcuni professionisti governa il Consiglio. La vicenda torna d’attualità grazie al Tribunale di Milano. Chissà se il Consiglio nazionale, convocato per la prossima settimana, batterà un colpo, se almeno qualcuno della maggioranza alzerà una mano in segno di pentimento, scosso dalla lezione fornita dal Tribunale, se si potrà riaprire un dibattito “deontologicamente” fondato, o se tutto finirà un’altra volta nel silenzio, in omaggio all’autodifesa castale. Per ora, d’altre parti, dopo tanto netto pronunciamento dei giudici, s’avverte solo il riaffiorare della ennesima e stantia discussione sulla “libertà di satira”, sempre naturalmente a prescindere da qualsiasi riflessione su ciò che è satira e su ciò che può essere semplicemente volgarità o imbroglio. Attendo delucidazioni (e, soprattutto, la riforma dell’Ordine).
       
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