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Ordine, analisi di una sconfitta


di Oreste Pivetta sconfittaIl bilancio ufficiale delle prime tre giornate di vita del Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti si fa alla svelta: Enzo Jacopino è stato rieletto presidente, vicepresidente è diventato Santino Franchina (un pubblicista come deve essere per legge), il nuovo segretario sarà Paolo Pirovano, Nicola Marini sarà ancora il tesoriere… E poi via con le nomine: esecutivo, collegio dei revisori. Manca ancora qualcosa a completare il quadro e qualcosa di assai importante: dal consiglio di disciplina alle commissioni consultive (ricorsi, culturale, giuridica, amministrativa). Si pronuncerà il prossimo consiglio. Altri giorni di votazione e partita delicata. I dodici membri del consiglio di disciplina riassumono su di sé le responsabilità di tribunale d’appello che erano del consiglio nazionale prima della “riformina”. Le altre commissioni godono di poteri di indirizzo per niente trascurabili. La prima deduzione, letti i nomi degli eletti, è semplice: la cosiddetta “sinistra” (o il cosiddetto “centrosinistra”) è stata di nuovo sconfitta. Giancarlo Ghirra, l’ex segretario, che al primo turno aveva ottenuto più voti di Jacopino e di Del Boca (il terzo candidato), non è riuscito nell’impresa di scalzare il presidente uscente, premiato dalle alleanze e dalla solidarietà compatta, o quasi, dei pubblicisti. Paradosso di quest’Ordine: in un consiglio di 156 membri,  pubblicisti che sono giornalisti (e che potrebbero giovarsi del ricongiungimento) e pubblicisti che sono avvocati, commercialisti, notai, geometri e infermieri pesano più dei giornalisti-giornalisti. Domanda: perché Ghirra, che poteva contare su una cinquantina di voti sicuri, non è riuscito a costruire un’alleanza alternativa a quella di Jacopino? Non rispondo se non con un elenco di possibili interrogativi: quanto può essere condivisa un’idea di riforma dell’Ordine che era al centro della “campagna” di Ghirra e che deve restare al centro di qualsiasi nostra iniziativa, ma che “taglierebbe” almeno un terzo degli attuali consiglieri; a chi può stare a cuore una riforma dell’Ordine; quanto valgono nel successo di Jacopino e nella sconfitta di Ghirra intrecci non proprio palesi con il futuro della Fnsi; quanto poco “paga” una politica di rigore, di tagli, di negazione di ogni favore (rispetto ad esempio ad un capitolo fondamentale, che si aprirà tra breve, come la formazione); quanto è realistica e quanto è apprezzata una parola d’ordine come “o si cambia o si chiude”, quando si sa benissimo che la maggioranza non vuole chiudere e altrettanto bene si sa che non spetta a noi “chiudere” (ci vuole una legge non solo per riformare, ma anche per chiudere). Insomma  di ragioni della sconfitta ne potremmo elencare ancora tante. Ad esempio: di quante antipatie trasversali godeva e gode Ghirra. Argomento delicato, spiacevole, ma non lo si può tacere dopo essere venuti a sapere che era pronto, per alcuni almeno, un candidato di ricambio, da schierare al secondo passaggio di votazioni, qualora Ghirra fosse andato male al primo. Non approfondisco. Così mi sottraggo pure alla “cronaca” relativa a certe infelici riunioni.  E’ certo che i “riformisti” autentici sono una minoranza, anche tra i riformisti, e sono una minoranza che non ha saputo estendere il consenso (brave, ragionevoli persone stanno anche sul fronte opposto, non lo si dovrebbe mai dimenticare). Francamente mi dispiace che sia uscito con le ossa rotte il nostro candidato (candidato dalla fine della scorsa “consigliatura”), l’ottimo Ghirra (che non potrà rinunciare ora a un compito di coordinamento, di guida…). Francamente aggiungo che non mi sento però di piangere sulla sconfitta e sugli errori o sulle divisioni, sull’inconcludenza di certe discussioni o sulla durezza fondamentalista di altre (penso a come si sia giunti all’elezione del segretario, pescando all’ultimo momento una sorta di vittima sacrificale, tanto per votare qualcuno). Verrebbe da dire: questo è il migliore dei mondi possibili... Questo è l’Ordine (come vuole la legge del 1963), questo è il consiglio (eletto da una sparuta pattuglia di elettori, secondo criteri di rappresentanza che allargheranno sempre di più la schiera dei pubblicisti), questo è il presidente (promosso peraltro nel pieno rispetto delle regole democratiche), questa è la democrazia “incompiuta” nelle mani di gruppetti che mercanteggiano nei corridoi (non possiamo consolarci, purtroppo, considerando quanto avviene nella politica “grande”), questo è il paradosso di un “centrosinistra” (continuo con le definizioni che semplificano) che vince a Roma, vince o quasi a Milano, cioè nei due centri più cospicui della stampa e del giornalismo, e ancora una volta non riesce a imporre una propria leadership nazionale. Non scelgo la diserzione. Resto intanto per promuovere in quelle commissioni qualcuno di cui  si possa nutrire stima e fiducia, commissioni importanti se non fondamentali per provare a muovere in un certo senso (il nostro) la vita dell’Ordine e magari per controllare la “cassa”. Si potrà pur pensare che la nostra serietà, il nostro impegno, la nostra intelligenza possano contribuire a imbastire qualche cosa di buono o almeno a controllare che non si verifichi il peggio… esercitare un po’ di “egemonia culturale” insomma. Credo che il secondo passo sia ricostruire l’unità della componente, superando certi fondamentalismi. Si sta in gioco per fare politica, non per sventolare bandiere, e la politica si fa tutti i giorni, “qui e ora”, in qualsiasi condizioni per cambiare (e per costruire alleanze, stabiliti certi obiettivi). Non temo spaccature. Temo la mancanza di chiarezza, temo l’accordo formale che smorza il litigio e inquina invece il lavoro. Se siamo una minoranza e se saremo ancora più minoranza, dovremo con maggior forza sentire la responsabilità della riforma, di idee nuove, di rompere quel consorzio chiuso che è l’Ordine. Se vogliamo la riforma dobbiamo saperne indicare i principi e proporli all’esterno, a quanti potrebbero condividerli tra i partiti, tra i sindacati, nei luoghi della cultura, soprattutto tra i nostri colleghi, che altrimenti avrebbero tutti i motivi per continuare a negare qualsiasi ragion d’essere all’Ordine (ricordo il messaggio di un collega, che faceva il conto di quanti saranno mobilitati tra consiglio nazionale, consigli regionali, disciplina, eccetera eccetera: un esercito di cinquecento persone ed è un calcolo per difetto). I punti di una riforma li conosciamo (chi è il giornalista, il progressivo superamento della distinzione pubblicisti- professionisti, le scuole, gli accessi, la formazione, il numero dei consiglieri, eccetera eccetera). Su una questione insisterei: inviterei tutti a riprendere quella riflessione che a Milano era stata avviata con Letizia Gonzales a proposito del rapporto tra consigli regionali e consiglio nazionale (che nel passato s'è mostrato conflittuale). Credo che nel riconoscimento del ruolo dei consigli regionali sia la strada per costruire davvero una maggioranza reale a sostegno di una riforma.  L’importante è stare nel Consiglio, ma al tempo stesso uscire dal Consiglio: niente ci vieta una azione politica in coerenza  con il nostro mandato e con i nostri progetti, da minoranza che potrebbe intanto conquistare rispetto e poi magari l’assenso ad un impegno là dove la riforma potrebbe diventare legge. Se si vuole davvero la riforma non aspettiamola da questa maggioranza (e non aspettiamola neppure dalla maggioranza delle “larghe intese” che governa il paese e che deve pensare a ben altro).
       
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