Redazione
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l'Unità specchio della crisi. Del paese e della professione
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di Oreste Pivetta La crisi dei giornali o dell’informazione in genere sembra a tutti devastante. A me pare che lo sia per svariati motivi. Intanto bisognerebbe riferirsi al contesto: viviamo in un paese al tracollo, in una società in pieno dissesto e si parla di economia, ma anche di politica, morale, di cultura, di civiltà. Come potrebbero scampare da tanto disastro i giornali? E di che tipo è la loro crisi? Di vendite, certo, di produzione, ma anche di qualità. E’ da quando ho imparato a leggere e scrivere, dalle elementari, che leggo giornali e mai li ho trovati noiosi prolissi vacui, sostanzialmente inutili come adesso (salvo qualche cosa qui è là, riassumibile in poche agili paginette, salvo nel racconto di quegli eventi capaci ancora di scuotere qualche giornalistica coscienza assopita), compresi ovviamente i primi della classe, quelli in testa nelle tirature, che maggior responsabilità dovrebbero avvertire nei confronti del pubblico e che maggior peso hanno avuto invece nell’alimentare chiacchiere modaiole e quindi nell’assistere benevolmente alla corruzione morale del paese. L’inseguimento della banalità, la ricerca delle belle scritture seduttrici (belle scritture ripetitive e di quella gaiezza ostentata e ricercata, alla fine solo di maniera), l’esaltazione di un giornalismo da scrivania, la moltiplicazione esasperata dell’intervista “usa e getta”, la scelta di modelli ispiratori vicini a Novella 2000 o al Radiocorriere, l’invadenza pubblicitaria (addirittura la commistione pubblicitaria, condannata da qualsiasi codice deontologico, praticamente mai sanzionata dai nostri istituti) e l’abuso di “allegati” hanno pagato all’inizio, alla lunga hanno mostrato la corda e stanno mostrando la corda soprattutto oggi quando il sistema di riferimento consumistico conferma di giorno in giorno drammaticamente il suo fallimento. Si dovrebbe porre un accento anche sulla politica, non quella ideale, ma quella quotidiana dei partiti e dei parlamenti: come si possono fare buoni giornali se la politica è quella praticata e mostrata da noi, come si possono vendere più giornali se il distacco dalla politica, per la sua cattiva specie e per la estraniazione da quelle sensibilità sociali, individuali e collettive, che sono la base della democrazia, è tanto forte, dilagante (quanti hanno votato a Roma?). Si dovrebbe aprire un altro capitolo a proposito di innovazione tecnologica, che rivela facce buone e cattive: il digitale ci ha regalato decine e decine di canali, anche informativi, uno più squallido dell’altro, internet ha aperto le porte su un universo della comunicazione incontrollabile e incontrollata, ma con il vantaggio della gratuità (gratis et amore Dei: la seduzione è al massimo), senza favorire alcun circuito virtuoso (basta un rapido sguardo ai siti dei principali quotidiani, infarciti all’inverosimile da filmatini e blog al limite della decenza). Il risultato? Colossi editoriali come Rcs, come il Corriere, che in un paese normale avrebbero dovuto portare i libri contabili in tribunale, sopravvivono preda di gruppi di potere più o meno trasparenti con finalità tutt’altro che informative e formative (e salveranno la “storica” sede di via Solferino, che non subirà la vergogna di cadere in mano a qualche petroliere russo). Come ha vissuto e come vive in questo mondo l’Unità? Male e intanto per la sua particolarità di giornale politico, per gran parte della sua vita, libera o clandestina, organo di un grande partito di massa, particolarità che ha sancito la sua fortuna editoriale (ricordate le diffusioni domenicali di un milione di copie?), ma ha pure indicato il suo limite: quando il partito s’è dissolto, dopo il crollo del muro di Berlino, dopo il tramonto dell’utopia socialista, eccetera eccetera, si sono dissolti anche quell’esteso mercato di lettori e quella struttura radicata e diffusa, che al Pci facevano riferimento. Non sottovalutiamo altri problemi: ad esempio la impressionante penuria di inserzioni pubblicitarie (anche quando l’Unità era il terzo o il quarto quotidiano in Italia per diffusione). Morto il Pci, con un partito tra Pds, Ds, Pd, né carne né pesce, sempre più dilaniato da faide interne di basso profilo, senza più la capacità di offrire un orizzonte (il sol dell’avvenire), arrivati al punto in cui il dibattito sembra girare attorno alla questione “votare o no la Santanchè” per tenere in piedi un governo di “larghe intese” che serve soprattutto a tenere in piedi Berlusconi, l’Unità, ormai da tempo semiprivatizzata (ma con il consistente contributo economico del partito), tuttavia resiste, cioè continua ad avere lettori e a vantare un credito importante. Il brand è ancora forte, direbbero i pubblicitari. Un miracolo di resistenza, malgrado una caterva di scelte editoriali discutibili se non criminali. L’altro giorno mi rifacevo mentalmente l’elenco dei direttori degli ultimi quindici anni, alcuni francamente impresentabili, disastrosi sul piano della progettazione di una linea editoriale o della conduzione di una redazione. Non faccio nomi. Cioè ne faccio solo uno, tra quelli presentabili, di quest’era post comunista, ricordandolo con immutata stima. L’Unità nel 2000 chiuse per sovraccarico di organici e di debiti. L’editore Alessandro Dalai, dopo mesi di lavoro, la rimise in corsa, allacciando un’alleanza tra il partito e investitori privati. Scelse il direttore giusto, Furio Colombo, di cui allora diffidavo (ex uomo Fiat, pratico di salotti, snob, eccetera eccetera) e che mi si rivelò persona prima di tutto onesta, intelligente, di grande cultura (se penso a chi l’aveva preceduto!), combattiva, tenace, un direttore che seppe ridare slancio a una redazione ridotta ai minimi termini (non è detto che sia uno svantaggio essere in pochi, come diceva mia madre: pochi, ma buoni), che seppe valorizzare risorse sparse, tra Milano Roma Napoli il Veneto, che impresse un bello spirito battagliero al giornale e alla sua politica, rivendicando autonomia rispetto al partito, ma nel segno di una forte capacità di proposizione. Dimostrò che l’Unità aveva una ragione d’essere, che godeva di tante simpatie, che era ancora un giornale atteso e letto. Del seguito dico nulla o quasi nulla. L’Unità a un certo punto, chiusa la vicenda Colombo-Dalai, passò in proprietà di Renato Soru sulla base di un’intesa con Veltroni, allora segretario del partito (Soru, presidente della Regione Sardegna, contava in una rapida carriera nazionale e il giornale gli sarebbe servito assai). Poi le cose politiche (ma anche aziendali) andarono meno bene del previsto per il geniale fondatore di Tiscali, l’Unità divenne un peso, di cui avrebbe voluto liberarsi ma fino a un certo punto: sgravarsi dall’onere finanziario, però mantenerne il controllo in vista di nuove avventure politiche (non dimentichiamo che Soru s‘inventò e realizzò il suo giornale sardo, a diffusione regionale, morto nel giro di poche settimane, un paio di anni fa). Soru il giornale lo ha comunque sostenuto, agevolato negli ultimi tempi dall’arrivo di nuovi finanziatori, evidentemente mettendoci e rimettendoci dei quattrini, riluttante come chiunque cerchi di colmare un pozzo senza fondo, incerto se andare avanti, poco convinto di continuare (alcune dichiarazioni dell’editore Soru sui difetti dell’Unità meriterebbero memoria perenne). Ma si può andare avanti così? Arretrando le vendite, diminuendo i lettori, con poca pubblicità, nell’incertezza delle prospettive editoriali (non parliamo di quelle politiche), organo del Pd, ma solo fino a un certo punto (perché da un altro punto in qua anche Europa si riconosce organo del Pd). Credo di no. Sarebbe un’agonia tristissima. Provare a cambiare, questo toccherebbe all’Unità. Che fare, però? Da quanto ho saputo attraverso i comunicati del Cdr il piano presentato dall’azienda prevede solo tagli (a cominciare dal taglio delle cronache locali di Bologna e Firenze). Ma è ovvio che non si può procedere solo a tagli, soprattutto quando non si vede bene o non si sa bene che giornale si voglia proporre. La riduzione dei costi costituisce un obiettivo lecito, ma rischia di trasformarsi in un’arma a doppio taglio: comprimi le spese, ma riduci anche speranze e opportunità di crescita. Ho sempre creduto che in primo piano dovesse collocarsi il progetto, cioè un’idea per l’Unità futura. Che idea ho dell’Unità futura? Ho l’idea “vecchia” di un giornale “diverso”, di un giornale cioè che non debba inseguire gli altri, giornali e televisioni, e voglia invece proporre contenuti propri, leggendo politica, cronaca, cultura, sport, facendo politica, cultura, cronaca, sport, seguendo una propria idealità e costruendo quindi una propria identità (ricordiamo l’insegnamento di Gramsci: giornale “popolare”), attingendo alle straordinarie risorse intellettuali ancora pronte ad un impegno politico e giornalistico, scoprendo il paese (perché negarsi la possibilità di “scoprire” questo paese alla maniera del Politecnico, di Carlo Levi, di Giorgio Bocca, di tanti altri, alcuni dei quali oscuri cronisti dell’Unità: sono passato pochi giorni fa dal Vajont e così ho ripensato a Tina Merlin, ex partigiana, che denunciò i pericoli di una tragedia di pura speculazione e che allora era ancora una “precaria” dell’Unità), costruendo autentici reportage e autentiche inchieste, senza stare a copiare faldoni giudiziari (lasciamolo ad altri questo compito), ristabilendo un rapporto con quanto resta vivo e non è già defunto della società italiana. Mobilitarsi… Ma per questo occorrerebbero una qualche saldezza economica (scrivo saldezza, non ricchezza), un certo vigore politico (con chi? Con Renzi, con Civati, con Cuperlo?), l’ambizione di andare a nozze con i fichi secchi, coerenza con il progetto, spirito militante, legami stretti con i mondi attorno a noi (del lavoro, del volontariato, della scienza, della scuola). Ci vorrebbe convinzione. Mi pare però che a sinistra di convinzioni se ne possano contare poche.