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La strage di Kabobo. Segue dibattito...
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di Oreste Pivetta L’assalto che diventa una strage. Tre morti in fila, uno al giorno da una mattina qualunque di un sabato qualunque fino a martedì, in una periferia milanese, una periferia calma, un vecchio borgo, che un tempo faceva comune a sé (e qualche tratto di quella storia ha conservato in vecchie case, vecchie cascine e vecchie ville), diventato corpo della città, famoso più che altro per il suo ospedale, gigantesco ospedale opera grandiosa del regime fascista, ricco di marmi bianchi, di lunghi corridoi, di camerate che un tempo ospitavano malati a decine. Un quartiere che contava per il suo spirito popolare, perché lì si fece la lotta al fascismo e quelle tracce sono rimaste. Un quartiere operaio, un voto al Pci sicuro, un voto poi a sinistra un po’ meno sicuro ma sempre forte. Domenica quando i leghisti si presentarono in piazza ad agitare le loro bandiere e a gridare i loro slogan razzisti, guidati da Borghezio, la gente li fronteggiò, civilmente. Neanche insulti, solo un invito: “non strumentalizzate”, non usate anche il dolore e l’angoscia. Non c’è proprio niente da strumentalizzare di una vicenda tragica e basta, tragica per i morti, tre uomini giovani o quasi, in sequenza Alessandro Carolè, quarant’anni, Daniele Carella, vent’anni, che veniva da Quarto Oggiaro, altra periferia al confine, e scaricava giornali con il padre, Ermanno Masini, l’ultimo, sessantaquattro anni, ma tragica anche per il colpevole, per la sua storia, sapendo che non conta tanto la sua storia di immigrato quanto quella sua di emarginato, di debole, di reietto, che viveva di elemosina e si vedeva scorrere davanti la vita senza mai riuscire ad afferrarla. Mada Kabobo ha conquistato la strada con il suo piccone, dopo averla vissuta nelle condizioni di chi non ha nulla. Mada Kabobo, che parte dal Ghana, arriva nella Libia di Gheddafi, approda in Italia, a Foggia, poi a Milano, analfabeta che parla solo nel suo dialetto, che diventa “richiedente asilo politico” e che oggi ha trentadue anni ma è una età presunta, che gli è stata attribuita per convenzione dalla polizia, perché Mada Kabobo non ha neppure di suo un anno di nascita. Ai poliziotti che lo hanno bloccato e ai magistrati che lo hanno interrogato ha detto solo di aver fame, di non aver dormito e di aver sentito le “voci” che gli ordinavano: “Vai e uccidi”. Quanti, se si leggono le schede mediche conservate negli archivi dei manicomi italiani, avranno detto di “aver sentito le voci”. Il colore, la razza, la lingua non facevano e non fanno la differenza: sono sempre le stesse voci, “voci assassine”. Kabobo non sa dire dove è stato, se mai ha lavorato. Si sa solo che chiede l’elemosina e si conclude che è “folle”, un “folle reo”, come sta scritto nei libri di psichiatria, cioè un folle colpevole di un delitto che non trova ragione. Come è successo in altri casi, altre volte, ai bianchi e ai neri. Si può pensare di tutto. Di certo si può sapere che Mada Kabobo aveva bisogno di aiuto, che se avesse ricevuto aiuto probabilmente la sua vita sarebbe stata diversa. Se la nostra comunità o la sua stessa comunità di immigrati non l’avessero abbandonato, Mada Kabobo avrebbe probabilmente trovato una sua via in altro modo, non l’avrebbe cercata a colpi di piccone. Forse sarebbe bastata una parola sua comprensibile, un parroco caritatevole, un operatore sociale pronto. Il sindaco Pisapia ha dichiarato il lutto cittadino. Dovrebbe essere una occasione di solidarietà, di fronte ai morti, di fronte ai loro familiari, di fronte a quella periferia di solito pacifica, che torna in cronaca per il sangue versato, costretta a prestarsi alle solite operazioni, ai soliti riti propagandistici che allarmano, spaventano, inquinano. Un filo di solidarietà andrebbe anche al ghanese assassino, colpevole, pluriomicida, solidarietà per pietà umana, ma anche per consapevolezza di ciò che possono provocare la malattia, l’abbandono, la solitudine. Sono circostanze in cui la città dovrebbe ritrovarsi unita, ma la volgarità della pseudo-politica ci si mette di mezzo. Ci ha provato la Lega, ci hanno provato certi giornali. “Libero” ha dato il suo meglio, in quella sintesi domenicale tra contestazione bresciana al comizio di Berlusconi e il sangue di Niguarda: “Squadristi rossi / assassini neri”, coniugando intolleranza a intolleranza. Come se ad armare le mani fossero sempre gli stessi. Ancora ieri il Pdl contestava il sindaco Pisapia: avrebbe dovuto mantenere in città l’esercito, che l’ex ministro La Russa aveva concesso ai tempi della dimenticata Moratti, quando capeggiava i cortei, da sindaco, per l’ordine pubblico, reclamando sicurezza. Come se fosse possibile presidiare ogni quartiere di Milano, ogni angolo di strada, con i militari in armi. Scenario cileno, che sarebbe piaciuto al nostro ex ministro della difesa, probabilmente. Ma irripetibile in Italia e inutile. Militari o no, chiunque, Kobobo o no, può colpire, se è quello stato mentale, che si può chiamare follia, che lo guida. La partita della destra si gioca su tre fronti: l’insicurezza che vivrebbe Milano, per attaccare una giunta di centro sinistra, il colore di chi delinque, per strizzare l’occhio ai leghisti o agli ex leghisti, e, infine, la politica nazionale. Perché tra Lega e certi fogli di destra, che fanno l’elenco dei reati imputabili a immigrati, magari “di colore”, l’obiettivo da colpire diventa la novità di un ministro “di colore”, un’italiana nata in Africa, che si dovrà occupare di integrazione su un indicazione di un premier sostenuto da destra e sinistra e che, occupandosi di integrazione, dovrà pure proporre qualcosa che farà riferimento al cosiddetto “ius soli”, al diritto cioè di un ragazzo nato in Italia da genitori immigrati di diventare “cittadino italiano”. Con mille limitazioni, tra mille prudenze: la ministra Kyenge sa benissimo quanto complicata sia la questione e come la si possa risolvere solo muovendosi con cautela, magari senza dimenticare che quegli stessi figli stranieri nati in Italia non sono poi sempre convinti di voler diventare italiani. Magari vorrebbero solo che non chiedessimo loro “da dove vengono”. “Non chiedeteci più da dove veniamo” è un loro slogan. Ma a certa politica, a certa stampa tutto serve per muovere campagne di un qualunquismo xenofobo, per stimolare i peggiori sentimenti, negando la realtà (chi sono ad esempio i protagonisti di tanti “femminicidi”? chi sono, ad esempio, gli autori degli ultimi delitti di droga contati proprio a Milano?). Kobobo è ovunque, come stanno ovunque gli spacciatori e i truffatori, come vive ovunque un Gianluca fiorentino pronto per dispetto razzista a uccidere due senegalesi e a uccidere se stesso.