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La radio ha 90 anni e il "radiasta" pure


1331717508451radio01La radio a transistor prima e il telefonino oggi sono due invenzioni che ci hanno fisicamente liberati, affrancandoci dalla postazione fissa. Giuseppe Prunai ripercorre l'evolversi delle tecnologie e la seconda giovinezza di questa "ragazza di 90 anni" che ha rivoluzionato anche il nostro mestiere. Nascono i radiasti, come Marinetti chiamava i giornalisti della radio, anzi della radia, al femminile... di Giuseppe Prunai. Mentre si apprestano a vendere (o svendere secondo alcuni) pezzi di Rai (in particolare tutto il settore alta frequenza: trasmettitori, ripetitori e ponti radio – come togliere le ruote ad un’automobile), la presidente della RAI Tarantola e il direttore generale Gubitosi con dichiarazioni roboanti hanno commemorato il 90° anniversario della prima trasmissione della radio italiana. (...). Ore 21 del 6 ottobre 1924: i pochissimi italiani possessori di apparecchi radio riceventi si sintonizzarono sulla lunghezza d’onda di 425 metri e dagli altoparlanti o dalle cuffie -più usate allora- uscì un suono di campane, rimasto poi sigla tradizionale della radio RAI, e subito dopo la voce di Maria Luisa Boncompagni: “Uri, Unione radiofonica italiana. 1-RO, stazione di Roma.” Seguirono altri dettagli tecnici e poi la voce della violinista Ines Viviani Donarelli introdusse il concerto inaugurale: Il quartetto in la maggiore per archi di Franz Joseph Haydn. Era nata la radio pubblica italiana. (...). Il linguaggio della radio La radio era appena nata che scoppiò la discussione fra intellettuali su cosa avrebbe dovuto essere, il suo linguaggio. La comunicazione fra essere umani è un sistema complesso fatto principalmente di parola e immagine, cioè i messaggi che impegnano due dei nostri sensi, cioè l’udito e la vista (ma ci sono anche altre componenti relative agli altri tre sensi, perché esiste anche un linguaggio del tatto, dell’olfatto e del gusto). Limitiamoci ai primi due che sono la componente maggiore del linguaggio delle relazioni formali. Le altre tre componenti prevedono tipologie di relazione diverse fra le persone. Parola e immagine formano un sistema binario che molti ritengono inscindibile. Alla radio, questo sistema viene spaccato in due. Non c’è l’immagine, c’è solo la parola. A fissare le prime idee su questa circostanza furono Filppo T. Marinetti e il poeta futurista Pino Masnata nel “Manifesto futurista della radio” nel 1933. Marinetti chiama “la radia” qualsiasi manifestazione della radio (ne parleremo più avanti). Ma la discussione affrontò soprattutto il tema dell’attività del giornalista radiofonico, il cosiddetto “giornalista che parla”. Il primo giornale radio è del 7 gennaio 1929. Ermanno Amicucci, giornalista e allora sottosegretario alle Corporazioni, (poi direttore della Gazzetta del Popolo e successivamente del Corriere della Sera nel periodo della RSI), scrisse in un articolo sul “Radio orario”, come si chiamava allora il Radiocorriere”. “Il «giornalista che parla» è un nuovo tipo di giornalista, che non ha bisogno di penna e di carta, che non conosce cartelle, né linotipisti, né piombo, né giornali; ma si serve unicamente della voce per esercitare la sua professione. E’ il giornalista che descrive, istante per istante, l'avvenimento dal punto preciso in cui si svolge sotto i suoi occhi, e ne fa partecipe il suo pubblico in ascolto alla Radio nei più disparati e lontani luoghi del mondo”. Far vedere con la voce Questo giornalista, scrive ancora Amicucci, “deve possedere, al sommo grado, le qualità del reporter moderno: cioè prontezza di visione, sensibilità di percezione, intuito giornalistico e, nel tempo stesso, preparazione tecnica, conoscenza della materia, arte del colore, padronanza della lingua, immediatezza di locuzione. Da un campo di corse, da uno stadio, da una piazza, - dovunque l'avvenimento lo richieda - egli deve vedere e far «vedere» ai suoi ascoltatori la scena che si svolge sotto i suoi occhi. La sua missione non è facile, perché egli è un giornalista che, oltre tutto, non può pentirsi e non può correggersi. Le sue parole corrono l'aere e sono afferrate istantaneamente da migliaia e migliaia di ascoltatori, i quali attendono con impazienza la descrizione delle varie fasi dell'avvenimento”. Per Amicucci e soci (siano in pieno ventennio fascista) la radio, comunque, avrebbe dovuto avere soprattutto la funzione di “abbellire la vita pubblica”, tendenza contestata da Bertold Brecht. Scrive in “La radio come mezzo di comunicazione”: “Non solo essa (la radio) ha dimostrato scarsa attitudine a farlo, anche perché la nostra vita pubblica rivela purtroppo scarsa attitudine a venire abbellita”. Brecht suggerisce però di trasformare la radio da mezzo di distribuzione di informazioni a mezzo di comunicazione. Dice Brecht: “La radio potrebbe essere per la vita pubblica il più grandioso mezzo di comunicazione che si possa immaginare, uno straordinario sistema di canali, cioè potrebbe esserlo se fosse in grado non solo di trasmettere ma anche di farlo ricevere, non solo di far sentire qualcosa all'ascoltatore ma anche di parlare, non di isolarlo ma di metterlo in relazione con altri. La radio dovrebbe di conseguenza abbandonare il suo ruolo di fornitrice e far sì che l'ascoltatore diventasse fornitore”. L’utopia di Brecht E questo è accaduto più tardi quando, grazie al miglioramento delle linee telefoniche, è stato possibile stabilire un contatto diretto con l’ascoltatore. E’ stato allora che la cosiddetta “Utopia di Brecht” è divenuta realtà. La radio, attualmente, è un mezzo interattivo, nel senso che l’ascoltatore non è più un soggetto passivo della notizia, ma può mettersi in contatto con un giornalista, con un esperto, chiedere approfondimenti, commentare, discutere, aggiungere notizie fino allora inedite. Un po’ quello che accade sui forum di Internet. Il primo programma che si avvalse di questo sistema fu “Chiamate Roma 3131” in onda al mattino su Radio2 che allora si chiamava “Secondo programma”. Proseguendo questa carrellata, dobbiamo ricordare che prima di Brecht, si occupò di radio, anche Filippo Tommaso Marinetti che, insieme con Pino Masnata (poeta futurista sconosciuto), scrisse nel 1933 “il manifesto futurista della radio”, che chiamò “la radia”. “La radia” di F.T. Marinetti Dice, fra l’altro, il “manifesto”: LA RADIA SARÀ': - Libertà da ogni punto di contatto con la tradizione letteraria e artistica. Qualsiasi tentativo di riallacciare la Radio alla tradizione è grottesco. - Un'arte nuova che comincia dove cessano il teatro, il cinematografo e la narrazione. - Al punto 12 del “manifesto” Marinetti scrive che “La Radia” è Parole in libertà. La parola – spiega - è andata sviluppandosi come collaboratrice della mimica facciale e del gesto. Scomparendo nella Radia questa collaboratrice (cioè la mimica) occorre la parola sia ricaricata di tutta la sua potenza, quindi parola in libertà; diventando parola essenziale e totalitaria, ciò che nella teoria futurista si chiama parola-atmosfera. Le parole in libertà; figlie dell'estetica della macchina, contengono un'orchestra di rumori e di accordi rumoristi (realisti o astratti) che soli possono aiutare la parola colorata e plastica nella rappresentazione fulminea di ciò che non si vede. Se non vuole ricorrere alle parole in libertà il radiasta (cioè il giornalista della radio) deve esprimersi in quello stile parolibero (derivato dalle nostre parole in libertà) che già circola nei romanzi avanguardisti e nei giornali; quello stile parolibero tipicamente veloce, scattante, sintetico, simultaneo. In epoca moderna, direi contemporanea, il linguaggio della radio è stato analizzato da Umberto Eco in uno dei suoi tanti corsi di semiologia. Carlo Emilio Gadda e il monito di Majakowskij Del problema si interessò moltissimo Carlo Emilio Gadda. L’autore de La Cognizione del dolore e de Quer Pasticciaccio brutto de via Merulana era un ingegnere elettronico prestato alla letteratura e al giornalismo radiofonico. Toccò a lui, agli inizi degli anni '50 come dirigente del mitico “Terzo programma” della RAI (il programma culturale diffuso in modulazione di frequenza) fissare alcuni principi per modernizzare il linguaggio della radio italiana che risentiva ancora degli orpelli retorici della Eiar del ventennio. Gadda raccomandava a tutti l’uso di periodi estremamente semplici tipo soggetto-predicato-complemento, di non usare parole insolite o antiquate e poco comprensibili ai più, parole proprie del linguaggio specifico delle varie professioni, di evitare parole ed espressioni straniere quando esista il corrispondente italiano. Infine, una curiosità, che comunque deve far pensare. Praticamente un monito per gli operatori della radio. Majakowskij, dedicò un sonetto a questo mezzo di comunicazione, per il quale scrisse in abbondanza. Dice che la radio è una grande invenzione, ma che c’è un’invenzione nell’invenzione, ancora più grande: quella dell’interruttore per spegnerla quando diventa fastidiosa. Il testo integrale dell'articolo: http://www.ilgalileo.eu/n32/radio.html
       
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