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In piena crisi. D'identità


Pubblichiamo l'intervento di Michele Urbano all'assemblea annuale di Autonomia e solidarietà organizzata a Imola dal 6 all'8 marzo. Tema: la crisi d'identità che il mestiere del giornalista sta attraversando.  

di Michele Urbano

 Partiamo dall’accesso. Vi sembrano pochi quattro modi per diventare giornalista? Ricordo, giornalisti oggi in Italia si diventa attraverso il praticantato classico, quello d’ufficio, le scuole riconosciute dall’Ordine, il canale, infine, del pubblicismo. E qui permettetemi una brevissima considerazione con una domanda finale. Oggi, a causa della deregulation contrattuale, molti collaboratori precari scelgono l’iscrizione all’albo dei pubblicisti perchè è quella meno difficile per ottenere un minimo di identità professionale. Anche la figura del pubblicista sta dunque cambiando. E forse questo meriterebbe un minimo di riflessione. Con una domanda senza nessuna polemica o retropensiero: oggi, anno 2009, ha ancora un senso l’albo dei professionisti da una parte e quello dei pubblicisti dall’altro?  La mia risposta è no. Ma andiamo avanti nell’esplorazione di questa nostra crisi d’identità. Dunque, quattro diversi modi per diventare giornalisti. Che significa anche un’altra cosa: che rispetto alla capacità professionale del giornalista esistono quattro diverse certificazioni. Quella dell’editore, quella dell’Ordine, quella delle scuole, e ancora quella dell’editore, o di più editori, per i pubblicisti. Ammettiamolo, singolare no? Per concludere questo primo approccio alla crisi d’identità che stiamo vivendo permettetemi solo una battuta: fareste fare il progetto di una casa ad un ingegnere riconosciuto d’ufficio dall’Ordine o prima vi informereste sulla sua laurea e sull’università che l’ha rilasciata?

La tecnologia - La crisi d’identità che stiamo vivendo ha anche un’altra causa: la tecnologia.  Ovvero,  come si è modificata la qualità del mestiere sotto la spinta dell’innovazione tecnica. Che proprio nel settore delle comunicazioni è stata straordinaria. Facciamo un salto all’indietro. Sino alla fine degli anni Sessanta la situazione era sostanzialmente identica a quella che si viveva mezzo secolo prima. Quotidiani, periodici e radio di Stato: era questa la struttura dell’informazione italiana e non solo. Il primo scossone arriva alla fine anni Sessanta, primi anni Settanta con il diffondersi delle cosiddette radio libere. Ossia, l’importanza di un’invenzione, il transistor, nella storia della comunicazione. Il transistor, riduce il peso e il volume delle radio – che diventano, volendo, tascabili -  riduce drasticamente i costi di produzione e allarga il mercato degli ascolti potenzialmente a tutti. Risultato: rapidamente l’offerta di comunicazione via radio anche in Italia si moltiplica. Ma anche i problemi aumentano.  E’ un po’ come oggi per internet: chi controlla la qualità dell’informazione? Banalmente, la sua veridicità, la sua attendibilità? Nessuno. Il controllo deontologico? Non esiste. All’Ordine nessuno pensa di istituire un minimo di monitoraggio sulla qualità dell’informazione sviluppata dalla radio libere e non solo. Monitoraggio che peraltro non è previsto da nessuna parte – ma nemmeno, in verità, negato – e che nemmeno oggi esiste. Controlli sindacali? Ovviamente, neppure. E, infatti, sono rarissime le radio con un minimo di tutela contrattuale. Ricordate Radio Montecarlo? Il secondo scossone arriva una quindicina d’anni dopo. In Italia la  prima trasmissione Tv è del 3 gennaio 1954. Il successo è lento. L’Italia è appena uscita dalla guerra e ha altro a cui pensare.  Nel 1960 gli abbonati Rai erano poco più di 2 milioni. Il boom arriva solo con la piena occupazione, quando tutte le famiglie dopo aver comprato frigo e lavatrice si comprano la Tv. Ma in fondo cambia poco.  La Rai modello Dc è prudente quanto rassicurante. Il terremoto comincia 31 anni dopo, il 4 febbraio 1985 quando Craxi con decreto permise, di fatto, la trasmissione in ambito nazionale a Mediaset (che ancora si chiamava Fininvest). Fu allora che nacque il duopolio generalista che tuttora dura. Anche se con un terzo incomodo: la Tv a pagamento che nasce, a sua volta, sulla spinta di un’innovazione che non è solo tecnologica (ieri la parabola, oggi il digitale, domani la web-Tv): si afferma, infatti, con un marketing molto aggressivo e con l’innovazione dell’offerta del prodotto (modellato su misura del consumatore). Pensate a Sky e pensate a un Corriere della Sera acquistabile a pezzi e a prezzi diversi: solo la cronaca, la cronaca e lo sport, solo gli spettacoli. Cosa c’entra tutto questo con la crisi d’identità? Bene, faccio una domanda senza nemmeno tentare di dare una risposta: la tecnica professionale necessaria  a un giornalista on-line per fare al meglio il suo lavoro quanto è necessaria a un cronista giudiziario? E viceversa: la capacità di scrittura, la conoscenza giuridica e il sistema di relazioni di un cronista giudiziario quanto è necessaria a un giornalista on-line? Temo molto poco e temo che anche il loro senso d’identità sia molto diverso. Ovviamente sui confronti potremmo sbizzarrirci. Ma fermiamoci e chiediamoci: abbiamo mai cercato di riflettere su come la tecnologia ha modificato il nostro lavoro? La qualità del nostro lavoro? Su come declinare i “giornalismi” in termini di rappresentanza sindacale, di regole deontologiche, di trattamenti pensionistici e assistenziali?  Diciamo la verità: nella sostanza si è fatto molto poco. L’ultima risposta innovativa e di peso che io ricordi è stata l’Inpgi 2. Ma questa pigrizia non mi stupisce. Faccio parte di una categoria che si appassiona ancora alla vecchia – secondo me, come dicevo, obsoleta -  distinzione tra pubblicisti e professionisti ma continua a rinviare una discussione sulla collocazione degli addetti stampa nell’albo dei giornalisti. No, non voglio cacciarli dall’albo. Sicuramente svolgono un lavoro che si avvale di tecniche giornalistiche. Ma altrettanto sicuramente stanno dall’altra parte della barricata. Far finta di non vedere le differenze è sciocco. Domanda: chiedere una discussione senza pregiudizi che tenti di trovare una soluzione è così scandaloso?  Un albo dei comunicatori sotto le ali dell’Ordine dei giornalisti è una proposta così indecente da non meritare nemmeno un approfondimento? Ma torniamo a quella straordinaria evoluzione tecnologica che il nostro mondo ha vissuto in questi ultimi trent’anni (ricordate la composizione a caldo?). Tutti ci chiediamo quale sarà il futuro che ci aspetta. Detto grazie a Pino Rea e alla sua paziente quanto preziosissima opera di ricerca, approfondimento e divulgazione sulle nuove frontiere del giornalismo, nessuno, credo, lo sa. Sarà il giornale caricabile su una sottilissima pagina di plastica – diciamo così - intelligente che si può tranquillamente piegare in tasca? Sarà il cellulare sempre più computer ultraportatile? Sarà la democrazia dei blog? Vedremo. La domanda vera è anche un po’ angosciosa è: l’informazione professionale, il mestiere del giornalista come leale raccontatore di fatti che hanno un interesse collettivo, avrà un ancora senso, uno spazio, una domanda di mercato, una retribuzione,  o no?

La deontologia senza regole – Diciamola tutta: se oggi la credibilità sociale del mestiere del giornalista è ai minimi termini è anche perchè della deontologia  siamo sempre stati molto disinteressati. Chiediamoci: il rispetto dei principi cardine dell’informazione (ricordo: la verifica delle fonti e la lealtà) quanto sono praticati in Italia?  Certo, all’origine di questa disinvoltura c’è molto del carattere italico (pubbliche virtù e vizi privati) ma c’è anche  un’indolenza più grave: il non essere riusciti ad adeguare il nostro mondo ai processi di cambiamenti. Mi spiego meglio. L’Ordine nasce nel 63 e riflette un mondo dell’informazione fatto di quotidiani, periodici, una radio e una Tv ancora elitaria (nel senso che nel 63 solo le fasce più agiate possono permettersi di acquistare un Tv). Dal 63 a oggi è passato mezzo secolo, è cambiato tutto, ma le regole, le strutture, le logiche dell’Ordine sostanzialmente sono sempre quelle. E anche dando per scontato l’approvazione – che scontata non è affatto – della mitica riforma,  saremmo sempre a baloccarci con un sistema di norme e di controlli, sicuramente meno preistorico, ma pur sempre  fuori tempo e autoreferenziale. Diciamolo: l’Ordine del 63 forse poteva funzionare per il piccolo mondo degli anni ’60. Ma già con l’esplodere del fenomeo delle radio libere non funziona più! Con l’imporsi della Tv commerciale va poi in coma. E oggi sopravvvive con l’alimentazione forzata. Perchè ci metto tanta enfasi? Ma perchè, è perfino ovvio, che la strutturale incapacità dell’Ordine a esercitare controlli deontologici non è ininfluente rispetto alla perdita di credibilità, e aggiungo, d’identità, della professione. Se il giornalista diventa ventriloquo di un gruppo economico o di una forza politica si riduce la sua identità professionale ma anche la sua credibilità sociale. E qui vorrei far notare che in questi anni in Italia, attraverso i giornali, a diverso grado,  si è prodotto un fenomeno interessante per la comunicazione politica ma devastante per la credibilità del giornalista: quello dell’opinionismo. Attenzione. Gli alfieri dell’opinionismo (come il Foglio o Libero, per citare i più  noti) fanno un salto di qualità rispetto alla tradizione dei giornali di partito). Sono giornali che si fanno partito (che tanto per gradire erano pure finanziati dai soldi del contribuente). L’opinionista, per definizione, non è giudice terzo, nè vuole esserlo. E’, a seconda dei casi, feroce accusatore o difensore pronto a tutto. Il suo lettore non vuole essere convinto, vuole avere il piacere della conferma. Il giornalista opinionista è pubblicamente schierato e più che lettori cerca consenso. Ma quando s’imbocca la strada tutta politica della ricerca del consenso c’è da mettere nel conto anche il dissenso.  Insomma, per alcuni dirai cose sacrosante, per altri menzogne invereconde. Il ruolo terzo del giornalista? Ovvio, va farsi benedire. Con effetti a catena per la credibilità di tutti i giornalisti. Che scontano anche in questo modo una perdita d’identità.

I nostri simboli - Chiusa la parentesi sull’opinionismo vorrei aggiungere una rapida  considerazione sulla nostra scarsa propensione al cambiamento anche quando si tratta  di ristrutturare, di adeguare ai nuovi tempi, la nostra casa comune. Prima parlavo dell’Ordine denunciando la sua arretratezza concettuale e organizzativa. Domanda: siamo consapevoli che con un Consiglio nazionale di 140 consiglieri garantiamo solo il ridicolo a futura memoria?  Ma c’è altro da dire. E da fare. Quanto sono cambiati gli istituti che storicamente la categoria si è data per proteggere la sua autonomia? Il nuovo Inpgi è del 1951 (quello dedicato a Giovanni Amendola non quello uscito dal ventennio quando era intitolato ad Arnaldo Mussolini). La Casagit è del 1974. Lo stesso Fondo che pure è la creatura più recente (1987) ha più di vent’anni. Anche per loro vale lo stesso discorso. Attorno tutto è cambiato, non il sistema di welfare che con grande lungimiranza la categoria riuscì a darsi proprio attraverso l’Inpgi e la Casagit. Va tutto bene? Non credo. Perchè allora non parlarne?  Conservatorismo interessato? Indolenza?  Non  voglio essere reticente. E allora faccio un passo indietro. E’ ovvio che dello stesso male soffre la Fnsi. Ma è ovvio che per la delicatezza del suo ruolo, per la necessità di preservarne la compattezza,  è giusto essere prudenti e magari attendere momenti meno problematici per avviare una discussione vera, anche in termini organizzativi, su come migliorarne la rappresentatività.  Bene, ma tutta questa prudenza non vale certo per Inpgi, Casagit e Fondo. Parliamone tranquillamente su come rimodellarli. Magari ruvidamente, ma senza secondi fini.  Sì, mi sto riferendo alla Casagit. Ultimamente ho sentito cose allucinanti, un’autentica campagna di disinformazione. Mi chiedo: a chi giova? La Casagit deve cambiare? Perfetto, si facciano delle proposte chiare su cui tutti i colleghi possono misurarsi e poi decidere. Invece, l’impressione che si ha, è quella di un gran polverone per mandare a casa questo o quell’altro e mettere a loro posto questo o quest’altro. E poi, continuare come prima? Perchè parlo della Casagit? Perchè la Casagit, come l’Inpgi, il Fondo, e soprattutto la Fnsi sono simboli che definiscono un’appartenenza, che incidono sull’identità professionale. Indebolirli lasciandoli alla deriva del tempo è un errore che si paga. Senza identità non c’è qualità del lavoro. Anche le professioni muoiono. Ricordate la gloriosa e antica corporazione dei tipografi? Sua maestà il computer la spazzò via in un decennio. La perdità di identità fu devastante sul piano tecnico e rapidissima sul piano organizzativo e sindacale. Sia chiaro: i vecchi andarono in pensione. Ma molti giovani si riconvertirono alle tecniche di video-impaginazione e di teletrasmissione. Di fatto cambiarono mestiere. Con l’identità non si scherza. O c’è o si diventa qualcos’altro. Appunto: noi cosa vogliamo fare da grandi?

       
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