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Il rischio suk nella riforma Fornero


di Mario Fezzi Prima di affrontare il tema dei licenziamenti, così come si è andato formando dopo la riforma Fornero –Monti, non riesco a trattenermi dal fare due osservazioni sul merito dell’intera manovra di riforma del mercato del lavoro. Il Governo ci ha raccontato ripetutamente (in TV, attraverso i giornali, sfruttando tutti i media a disposizione) che la manovra tendeva a ridurre drasticamente le tipologie contrattuali (figlie, in prevalenza, della legge Biagi), a rendere più complesso e costoso il ricorso ai contratti che una volta si chiamavano atipici e comunque a quelli temporanei, e infine, in cambio di questa ritrovata rigidità in favore del contratto a tempo indeterminato, a introdurre qualche elemento di flessibilità in uscita dal mercato del lavoro. Orbene, leggendo l’articolato approvato dal Consiglio dei Ministri il 23 marzo (primo documento ufficiale comparso alla luce) si scopre che la tanto decantata rigidità in entrata viene intesa come possibilità di stipulare il primo contratto a termine con un lavoratore senza la necessità di specificare la causale di cui all’art.1 D.Lgs.368/2001. E visto che un contratto a termine potrebbe avere anche una durata di 35 mesi, si spiana in realtà la strada a numeri grossi a piacere di contratti a termine privi di causale. Ma forse la Ministra Fornero, nelle numerosissime apparizioni televisive, si è solo dimenticata di citare questo dettaglio di cosi piccola portata, mentre  enfatizzava il suo progetto di riforma basato   sulla rigidità in entata ! Altrettanto curiosa è poi l’affermazione di avere ridotto drasticamente le tipologie contrattuali, quando l’unico contratto eliminato (ma non proprio del tutto) è l’associazione in partecipazione. Tutte le altre tipologie contrattuali sono rimaste, seppur con qualche non troppo significativa modifica. Infine, dopo la premessa che la flessibilità in uscita sarebbe stata compensata da un moderno sistema di welfare, che si sarebbe occupato dei problemi determinati dalla perdita del posto di lavoro, era lecito attendersi la costruzione di un vero sistema di welfare di marca scandinava (in quei Paesi, in cui la tutela contro i licenziamenti illegittimi è attenuata, vige un sistema di protezione sociale che protegge in maniera efficace la persona a 360 gradi, quindi non solo nel caso di perdita dell’occupazione, e nell’aiuto alla ricerca di nuova occupazione, ma anche e per esempio nell’istruzione, nella riqualificazione, nella cura della prole, nell’assistenza agli anziani. In un sistema del genere la perdita del posto di lavoro è ammortizzata da questa vasta rete di protezione, da noi totalmente inesistente). Il nostro welfare straccione si è invece limitato a introdurre una sorta di sussidio di disoccupazione (ASPI), di durata limitata e di contenuto modesto. E veniamo ai licenziamenti. Il Governo intende introdurre un sistema tripartito: i licenziamenti discriminatori e quindi nulli; i licenziamenti per colpe del lavoratore, con scelta da parte del giudice, nel caso di annullamento del licenziamento, tra reintegrazione e indennizzo; i licenziamenti economici, con solo indennizzo, nel caso di annullamento da parte della magistratura. Il progetto di riforma dell’art. 18 non modifica il campo di applicazione della norma (quindi, per le piccole aziende continua a valere l’indennizzo già oggi previsto tra 2,5 e 6 mensilità. Viene invece modificato, sempre nel caso di reintegrazione, il risarcimento del danno da corrispondere al lavoratore: in primo luogo, l’entità del risarcimento viene limitata entro il massimo di 12 mensilità; in secondo luogo, dall’importo deve essere detratto non solo quanto effettivamente percepito dal lavoratore, com’è già oggi, ma anche quanto egli avrebbe potuto percepire. In ogni caso, resta ferma la condanna al versamento dei contributi, anche se sul punto non è chiaro se ciò debba avvenire con riferimento all’intero periodo intercorrente tra licenziamento e reintegrazione, ovvero solo limitatamente ai primi 12 mesi coperti dall’indennizzo. Su questi punti c’è subito da osservare che limitare a 12 mesi il risarcimento del danno vuol dire scaricare sul lavoratore il rischio della durata del processo; così come dedurre dal risarcimento anche ciò che il lavoratore avrebbe potuto percepire, costringe il lavoratore stesso a oneri probatori impropri. Il lavoratore dovrà cioè dimostrare, per avere almeno i 12 mesi di risarcimento del danno, di aver fatto tutto il possibile per reperire una nuova occupazione e, ciò nonostante, di non averla trovata. Inoltre questo nuovo sistema risarcitorio rischia di avere pesanti conseguenze anche sulla copertura previdenziale. Tra le due ipotesi prima prospettate in merito alla condanna al versamento dei contributi, il rischio è che  la più corretta sia quella che ipotizza il versamento solo del periodo coperto da indennizzo, perché non può esistere un versamento contributivo in assenza di un pagamento retributivo. Ciò significa che dai tempi lunghi del processo il lavoratore illegittimamente licenziato subisce danni di tipo non solo retributivo, ma anche contributivo. Ma vediamo le fattispecie: 1. LICENZIAMENTI DISCRIMINATORI: per questa categoria di licenziamenti è prevista la reintegrazione nel posto di lavoro. Nessuna novità in proposito, perché era già così. Le discriminazioni, in prima battuta, dovrebbero essere quelle determinate da razza, origine etnica, genere, religione, fede politica e sindacale,  convinzioni personali,  handicap,  età o orientamento sessuale (art.15 s.l., L.903/77, L.125/91, Dlgs.215 e 216 del 2003). Fin da ora è necessario chiarire che il concetto di discriminazione applicato nel nostro sistema culturale e giuridico deve essere radicalmente modificato e deve diventare quanto più possibile simile a quello in uso concretamente nelle Corti degli Stati Uniti. Se ne parlerà meglio più avanti. Nel capitolo licenziamenti discriminatori vengono poi inserite altre due tipologie di licenziamento: quelli intimati per maternità o matrimonio (nessuna modifica in proposito, rispetto al passato) e quelli intimati per motivo illecito ai sensi dell’art.1345 c.c.(e qui, con questa novità, potrebbero aprirsi delle simpatiche opportunità). 2. LICENZIAMENTI SOGGETTIVI O DISCIPLINARI: per questa categoria di licenziamenti è invece previsto che, in caso d’annullamento, sia il Giudice a scegliere tra reintegrazione e risarcimento. I licenziamenti in oggetto sono quelli disciplinari, quelli intimati per malattia (superamento del comporto) e quelli motivati dalla inidoneità fisica o psichica del lavoratore. Se non applica la reintegrazione il giudice condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria tra 15 e 27 mensilità, “tenuto conto di vari parametri”,  che però non vengono indicati. 3. LICENZIAMENTI ECONOMICI (INDIVIDUALI E COLLETTIVI): questa e’ la categoria di licenziamenti che viene espressamente esclusa da ogni possibilità di reintegrazione, nel caso di annullamento da parte del Giudice. In luogo della reintegrazione, se il licenziamento viene annullato, il Giudice dispone il pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva tra 15 e 27 mensilità di retribuzione (“tenuto conto di vari criteri” che anche qui non vengono enunciati). E’ però interessante un’affermazione contenuta in questo tipologia di licenziamenti: “Al fine di evitare la possibilità di ricorrere strumentalmente a licenziamenti oggetivi o economici che dissimulino altre motivazioni di natura discriminatoria o disciplinare, è fatta salva la facoltà del lavoratore di provare che il licenziamento è stato determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, nei quali casi il giudice applica la relativa tutela”.  In altri termini, se cade la motivazione addotta (la ragione economica) è automatico che il motivo del licenziamento sia da ricercare non nel desiderio di risparmiare, ma nella volontà ben precisa di eliminare un ben determinato lavoratore, E cosa c’è allora di più discriminatorio ?  Non si voleva colpire la mansione o la funzione, ma si voleva eliminare surrettiziamente un lavoratore indesiderato. Ce n’è quanto basta per spostare il licenziamento nella categoria di quelli discriminatori ed applicare il regime dell’art.18 (reintegra e risarcimento). ***** Nei casi in cui il giudice deve scegliere tra reintegrazione e indennità risarcitoria, la proposta di riforma chiarisce che il giudice dispone la reintegrazione se accerta che il lavoratore non ha commesso il fatto contestato, o se il fatto contestato ed effettivamente commesso sia riconducibile, alla luce del contratto collettivo, a una più tenue sanzione. Nelle altre ipotesi, il giudice deve invece disporre il pagamento dell’indennità. Le uniche altre ipotesi possibili sono la violazione della procedura disciplinare. In questo caso, peraltro, il datore di lavoro viene ammesso alla prova che, nonostante il vizio procedurale, il lavoratore abbia effettivamente commesso un inadempimento talmente grave da configurare un’ipotesi di licenziamento disciplinare: in questo caso, l’indennità dovuta è ridotta da un minimo di 7 a un massimo di 14 mensilità. Questo doppio regime, già di per sé complesso, è ulteriormente complicato perché la proposta di riforma prevede che il doppio regime si applichi anche: • limitatamente all’ipotesi della reintegrazione, ai casi di licenziamento per superamento del comporto (sempre che il comporto non sia stato superato; resta peraltro da capire cosa succeda nel caso di comporto superato per malattia imputabile al datore di lavoro, come per esempio nel caso di mobbing), ovvero nei casi di licenziamento per inidoneità fisica o psichica; • limitatamente all’ipotesi dell’indennizzo, ai casi di licenziamenti annullati per vizi di forma. Si tratta essenzialmente di due ipotesi: licenziamento intimato oralmente, ovvero intimato per iscritto ma senza giustificazione. Anche in questo caso, al pari del licenziamento disciplinare con vizi procedurali, il datore di lavoro può provare che – a prescindere dal vizio formale – il licenziamento è comunque fondato, con tutte le conseguenze già indicate (sia in merito alla riduzione dell’indennizzo che al prolungamento del processo). Quanto invece ai licenziamenti per motivi economici (che comprendono anche i licenziamenti collettivi), il progetto di riforma prevede una procedura di conciliazione avanti la DPL (definita “rapida” e “non appesantita da particolari formalità”), nell’ambito della quale il lavoratore potrà essere assistito anche da rappresentanti sindacali. Questa ipotesi rende solo eventuale la presenza dell’assistenza sindacale nella procedura di conciliazione. Inoltre, viene introdotta una nuova ipotesi di conciliazione avanti un organo non giurisdizionale, quando la realtà aveva già dimostrato l’inutilità di simili procedure, tanto da indurre il legislatore ad abrogare l’obbligo del preventivo tentativo di conciliazione. I licenziamenti discriminatori sono una categoria, per ora, ignota alle aule di Tribunale, se escludiamo le questioni di genere, che si avvalgono tuttavia di una corsia preferenziale determinata dall’inversione dell’onere della prova. Difficilmente la riforma darà nuova vita a questa categoria del tutto indimostrabile (quanto folle dovrebbe essere un datore di lavoro per licenziare un lavoratore facendo riferimento al colore della sua pelle o al suo genere o alle sue preferenze sessuali, o ancora alla sua fede politica o sindacale ?). Infatti, perché mai il datore di lavoro dovrebbe indicare una ragione diversa, con il rischio di subire la reintegrazione? Molto più conveniente, invece, inventare per esempio la soppressione del posto di lavoro, perché quand’anche il giudice non l’accertasse, il datore di lavoro sarebbe condannato a un mero risarcimento economico, senza rischiare appunto la ricostituzione del rapporto. POSSIBILI RIMEDI E INIZIATIVE. La prima e immediata considerazione e’ che il sistema sopra tratteggiato è incredibilmente incostituzionale. E’ infatti impensabile che possa reggere all’esame della Corte Costituzionale una norma che prevede per casi identici, soluzioni tanto diversificate. Non solo, ma addirittura l’incolpato di una grave mancanza, che poi risulti meno grave e quindi determini l’annullamento del licenziamento, avrebbe diritto ala reintegrazione, mentre un licenziato per causa economica (che quindi nessuna mancanza, nemmeno lieve, ha commesso) si vedrebbe negata la reintegrazione e potrebbe ottenere solo l’indennità risarcitoria. Ma la vera novità di questa riforma è il fatto di costringere gli operatori del diritto a ragionare in termini radicalmente nuovi e diversi dal passato. In primo luogo è indispensabile dare inizio a un’operazione culturale e giuridica che introduca nel nostro paese un concetto ampio di discriminazione, come esiste in molti paesi e segnatamente negli Stati Uniti. In quel paese solo un trentenne, bianco, sano, moderatamente cattolico, non ha nessun speranza di vedere annullato il suo eventuale licenziamento. Ogni altro soggetto avrebbe buone possibilità di vedere annullato il licenziamento per discriminazione (senza alcuna necessità di prova, peraltro impossibile) che potrebbe spaziare dal colore della pelle, al genere, all’eta’, all’etnia, etc.etc. In altri termini un provvedimento che non abbia solidissime basi giuridiche ha altissime probabilità di venire annullato come atto discriminatorio. E non è necessario dare alcuna prova di tale intento nella decisione del datore di lavoro: è sufficiente l’affermazione di essere di pelle nera o di genere femminile. Questo ovviamente è un mondo a noi completamente sconosciuto, ma nel quale dobbiamo a tutti i costi riuscire a inserirci. Proviamo a ragionare: se un lavoratore licenziato per motivi economici vede annullare il proprio licenziamento per insussistenza della causale indicata, avrà davvero solo diritto all’indennità risarcitoria ? Non potrà invece sostenere (già fin dal ricorso) che la causale era falsa e il vero obiettivo era liberarsi di lui,  in quanto  persona sgradita al  datore di lavoro ?   E come potrebbe essere definito un comportamento del genere, se non come  discriminatorio ? E allo stesso modo quel licenziamento economico illegittimo perché non dovrebbe essere considerato nullo (e quindi destinato alla reintegrazione) ai sensi dell’art.1345 c.c. ?  Se il motivo economico non c’era, è ovvio che l’unico motivo determinante –illegittimo- era quello di liberarsi surrettiziamente d una persona sgradita. Ed ecco allora che il motivo unico determinante (e illecito) porta all’integrale applicazione dell’art.18 S.L. Ma ancora sempre quel licenziamento economico illegittimo potrebbe anche essere valutato come una sanzione disciplinare occulta o simulata, e potrebbe così essere disposta dal Giudice la reintegrazione. Mi pare insomma evidente che da oggi (anzi, da quando dovesse entrare in vigore questa sgangherata manovra) le conclusioni in tutti i ricorsi di impugnazione dei licenziamenti economici, che saranno la stragrande maggioranza se non addirittura l’esclusività, dovranno essere finalizzate a rivendicare la discriminazione, il motivo illecito determinante e la sanzione disciplinare simulata, dopo avere smontato (ove possibile) la motivazione economica. Una considerazione finale. Si è tanto parlato in questi mesi della deterrenza che l’art.18 esercita a protezione dei diritti dei lavoratori nell’ambito giornaliero del rapporto. E questa deterrenza resterà perlomeno dove spetterà al Giudice scegliere tra reintegra e indennità. Ma se in qualche sciagurato distretto giudiziario i giudici del lavoro non applicassero mai l’ordine di reintegrazione, limitandosi in ogni occasione a disporre il pagamento dell’indennità risarcitoria,  la deterrenza scomparirebbe e le impugnative dei licenziamenti diventerebbero solo un suk nel quale stabilire il prezzo di una persona.
       
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