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I lettori ci sono. E' che mancano i nuovi giornali
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di Paolo Pozzi Mai caduti così in basso, da più di 30 anni a oggi. Nel 2011 si sono vendute, in Italia, poco meno di 4 milioni e mezzo di copie di quotidiani. Roba da anni Settanta, visto che dal 1980 in poi non si era mai scesi sotto i 5 milioni. Lontanissimi quei 6.808.501 di copie (media quotidiana) del 1990, il picco di venduto più alto in assoluto registrato in Italia. Ineguagliato, nei 22 anni successivi (-34,4% in ventun anni, dal 1990 al 2011). Irraggiungibile, oggi. Anzi, se in soli cinque anni – dal 2006 al 2011 – la diffusione media giornaliera ha lasciato sul campo più di un milione di copie, le previsioni dicono che, di questo passo, alla fine del prossimo quinquennio le perdite potrebbero essere anche il doppio, facendo arrivare la quota di venduto dei quotidiani italiani a 2 milioni e mezzo di copie giornaliere. Senza appello le difficoltà per la free press: nel 2011 il fatturato in Italia è calato del 22% e nei primi tre mesi del 2012 addirittura del 40%. Davvero impietosa la fotografia del mercato italiano presentata alla Conferenza internazionale Wan-Ifra Italia 2012 (World Association of Newspapers) promossa dall’Associazione mondiale degli editori in collaborazione con la Fieg (editori italiani) e l’Asig,l’Associazione stampatori italiani giornali (in Italia sono attivi 80 stabilimenti con 140 linee di stampa) che ha presentato il suo rapporto annuale sullo stato di salute della stampa italiana. Eppure, nonostante la débacle delle vendite, segnala timidamente il rapporto Asig, il numero di lettori regolari continua a crescere: 4 milioni in più di lettori sulle edizioni cartacee in dieci anni e, in soli due anni, 1 milione di lettori-navigatori in più sui siti online di testate quotidiane. Nei due anni compresi tra il 2009 e il 2011, insomma, gli utenti delle edizioni web dei giornali sono aumentati del 47%, tanto per fare un altro paragone. Il che vuol dire che il giornale d’informazione non è morto e tutto (online e digitale) ruota ancora intorno al prodotto editoriale cartaceo? Un terzo della diffusione del Wall Street Journal è già in edizione digitale Negli Usa le edizioni digitali rappresentano ormai per la maggior parte delle testate una componente strutturale della strategia: un terzo della diffusione per il Wall Street Journal, addirittura più della metà per il New York Times, che pure da circa un anno ha adottato la strategia del ‘paywall’, cioè dell’accesso al pagamento al proprio sito. “Ci salverà la multimedialità” era l’imperativo più gettonato fra i partecipanti al convegno di Torino. Su 13 milioni di italiani che ogni giorno accedono a internet, infatti, circa la metà visita siti di quotidiani. E non è casuale il fatto che la pubblicità su internet sia stata l’unica nel 2011 a segnare un risultato positivo (+12%) a fronte di un - 5,3% sulla stampa e -3,1% sulla stessa televisione. E non è neppure un caso che nel biennio 2010-2011 i ricavi da attività online delle aziende editoriali italiane sono cresciuti dell’83%. Ma non basta. Non basta per niente, almeno per ora. I ricavi in forte crescita sull’online non compensano per niente le forti perdite del cartaceo. Se è vero che l’incidenza totale dei ricavi digitali sul fatturato non ha superato nel 2011 il punto e mezzo percentuale. Ma su 1 dollaro guadagnato per la pubblicità online se ne perdono ancora 12 nelle edizioni cartacee I ricavi internettiani, insomma, hanno volumi ancora ben distanti da quelli cartacei. Un fenomeno non solo italiano ma mondiale. Visto che anche la Newspaper Association of America segnala che, dal 2003 a oggi, rispetto a 1 dollaro guadagnato sulla pubblicità online se ne sono persi 12 nelle edizioni cartacee. Ciononostante il fronte che può salvare i giornali cartacei rimane la multimedialità. Ne è certo il presidente Fieg, Giulio Anselmi: “Tante volte i giornali sono stati dati per morti e invece sono ancora vivi. Stanno solo attraversando uno stato di crisi superabile”. Anche se lo stesso Anselmi parla di un calo della pubblicità dell’8,7% nei primi tre mesi del 2012 rispetto a un 2011 già pessimo e di un calo delle vendite del 5%. Anche se i dati e i numeri sulla pubblicità e sui ricavi editoriali non suggeriscono lo stesso ottimismo. Il settore industriale dell’editoria ha registrato una significativa erosione dei fatturati, diminuiti fra il 2006 e il 2011 di oltre un miliardo di euro. E nonostante gli sforzi sul fronte della riduzione dei costi – passati nello stesso periodo da 3,6 a 2,7 miliardi annui – la redditività complessiva del settore è andata calando, con un Mol (margine operativo lordo) pari a meno del 4% del fatturato. La pubblicità, da parte sua, nel 2011 è calata del 5,5% per i quotidiani a pagamento, e addirittura del 22,4% per i gratuiti, a fronte di un mercato complessivo che ha perso il 3,8%. La quota di mercato dei quotidiani è passata dal 16,2% al 15,6%, mentre la televisione, pur risentendo anch’essa della crisi degli investimenti pubblicitari (-3,1%), ha allargato dal 53,2% al 53,6% la propria quota. A fronte di questo quadro generale, può apparire quasi miracoloso che, nel complesso, le aziende editoriali italiane possano chiudere i bilanci 2011 con un margine operativo lordo positivo per circa 100 milioni di euro e utili per circa 30 milioni. Si risparmia solo sui costi Editori a corto di idee A ben guardare nelle serie storiche, ci si accorge che il risultato è stato reso possibile solo grazie a una significativa riduzione dei costi operativi, calati, tra il 2008 e il 2011, del 14%. Anche se nel 2011 i costi sono diminuiti soltanto dello 0,7%: segno chiaro del fatto che i margini per una ulteriore riduzione dei costi vanno assottigliandosi. Gli editori, insomma, dal 2012 in poi dovranno trovare qualche altra idea che non sia solo ed esclusivamente il ricorso alla restrizione delle spese. Di idee però, dal 1980 a oggi, al di fuori delle consuete trovate degli uffici marketing che hanno dato fondo ai soliti gadget, agli abbinamenti fra giornali dello stesso gruppo (per gonfiare le tirature) e ai collaterali (Dvd, libri, etc) d’ogni tipo, non ce n’è. Giornali ‘sensoriali’, profumati, video-giornali e giornali in 3D Ci provano, invece, a lanciare qualche idea, gli stampatori di giornali. Per uscire dalla crisi, infatti, secondo Sergio Vitelli, segretario Asig, per i media su carta, occorre puntare su nuovi prodotti editoriali e nuove sezioni tematiche, prendendo in considerazione le nuove tecnologie “sensoriali”, come la realtà aumentata, i “profumi” e la stampa in 3D. Per i media digitali, le strade possibili passano per gli aggregatori pluri e mono testata di Gruppo, per nuove edizioni digitali e nuove strategie di fidelizzazione dei clienti, dal geotagging di notizie e offerte commerciali, fino alle App personali. L’informazione su carta, in ogni caso, è in declino in Occidente – osserva il rapporto – ma non in Oriente. In Cina, India e Giappone è ancora in auge. “La differenza è dovuta al fatto che in quei Paesi il giornale è uno strumento di cultura, in Italia viene utilizzato solo per avere notizie, quindi superato da tutti gli altri canali d’informazione”, spiega Vitelli. Tra i primi dieci giornali al mondo (vedi tabella sotto al titolo) per vendite quattro sono giapponesi, due cinesi e due indiani, mentre soltanto due sono europei, i tabloid Sun e Bild. A scommettere sull’integrazione video-giornali è infine Cherylin Ireton, director World Editors Forum, secondo il quale relativamente ai nuovi modi di fare informazione, devono cadere le barriere fra la stampa e la comunicazione video, devono crescere le sinergie e l’efficienza nella titolazione dei contenuti multimediali e il giornalismo deve essere inteso più un gioco di squadra, il data journalism è accettato come una vera e propria disciplina. Un confronto serrato, insomma, a Torino, fra addetti ai lavori dell’industria dell’editoria su come si potrà uscire dalla feroce crisi di vendite dei giornali in un momento storico di indubbia turbolenza e di forte transizione verso forme nuove di giornalismo e d’informazione. Gli editori non hanno idee efficaci e magari sbagliano, ma almeno ci tentano. Il fatto è che gli editori ci tentano, per profitto personale e d’azienda. I giornalisti ci dovrebbero tentare, per diritto d’informazione e per salvaguardia della democrazia. Gli edicolanti che, in dieci anni in Italia, sono calati da 40mila a circa 30mila unità, incalzano da tempo gli editori e hanno sformato proposte (cadute nel vuoto, in verità) da mercanti illuminati. Addirittura gli stampatori si danno da fare per cercare soluzioni, per non morire di fallimenti a catena. E i giornalisti che fanno? Per ripensare da capo a fondo una professione basta forse un contratto Fieg-Fnsi che riguarda ormai meno della metà della categoria? Bastano i dibattiti off line e i post on line da star su facebook? Forse è arrivato invece il momento di guardarsi in faccia tutti quanti e discutere senza barriere e pregiudizi sulla multimedialità dell’informazione: editori, pubblicitari, agenzie di pr, centri media, giornalisti, blogger, uomini del marketing, edicolanti, distributori. Tutti i protagonisti della filiera produttiva dell’informazione a discutere del futuro dell’informazione e della democrazia. Ma i giornalisti devono tornare a essere al centro del dibattito, protagonisti e promotori di idee e progetti. In caso contrario non possiamo sempre e solo dire che gli editori e i loro uomini marketing sbagliano. Sarà forse un po’ lapalissiano a dirsi, ma, in periodi di cambiamenti epocali, è meglio gestire che farsi gestire.