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Edizioni Vero, paradigma dell'editoria furbettitalica
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di Beppe Ceccato Non parlo quasi mai delle vertenze che conduco. Sono tante, troppe. Una sorta di pudicizia e rispetto per colleghi che stanno perdendo il lavoro mi impongono un doveroso silenzio, quasi fosse un lutto. Per inciso, ci sono passato anch’io per questa strada (cassa integrazione e quindi licenziamento a seguito di chiusura di giornale). Come mi ha fatto notare con una punta di acida e perversa ironia un famoso editore che metto nella mia personale catalogazione faunistica come "bandito", uno dei tanti per inciso, proprio per averlo provato sulla mia pelle, posso dire di essere un sindacalista completo. In realtà, dopo anni di conquiste dei lavoratori (ricordiamolo, parte sempre più debole, comunque la si metta, rispetto ai datori di lavoro e persino, oggi, allo Stato che dovrebbe tutelarli), siamo paradossalmente tornati indietro di un paio di secoli. Nel periodo in cui Hegel discuteva di lavoro reputandolo un nobile strumento di realizzazione, mentre qualche decennio più tardi, Marx lo bollava come alienazione e asservimento al padrone-datore di lavoro. Siamo finiti ancora a discutere di questo, ancora a dover combattere contro mentalità retrograde passate per spiriti innovatori e alle conseguenti leggi (da Treu al renziano Jobs Act) che di innovativo non hanno nulla, semmai una miserabile ripetizione di modelli becero capitalisti. Mezzadria culturale, schiavitù intellettuale, ricatto perenne: con questo e solo con questo, devono fare i conti i lavoratori oggi, giornalisti inclusi. Un lungo prologo per raccontarvi un episodio, uno dei tanti. Se vi dico Edizioni Vero, quasi nessuno sa di cosa si tratta. Se vi dico Guido Veneziani, più di qualcuno rizza le antenne e sa di cosa sto parlando. Ebbene, a seguito del fallimento Veneziani, le testate di quell’”illuminato” editore vengono acquistate per una cifra consistente da Vittorio Farina (recentemente salito alla cronaca per essere stato arrestato con l’accusa di bancarotta fraudolenta) che mette i magazine, tutti popolari (per citarne alcuni, Vero, Vero TV, Vero Cucina, Top, Stop, Miracoli) in una società denominata Dprint. Dopo pochi mesi decide di vendere una parte dei giornali appena acquistati (Top, Stop, Miracoli) a un altro "editore bandito", Fabio Caso che usa una società romana prestanome per l’acquisto, tale Italicae Books, famosa casa editrice che nelle sue rare, anzi rarissime, pubblicazioni, annovera la traduzione in italiano del Mein Kampf di Adolf Hitler (e ci siamo capiti…). Inutile dire che Alg e Fnsi non firmano nulla, anzi ribadiscono una ferma contrarietà all’operazione. Caso le rileva, ma dopo nemmeno una settimana annuncia che il costo del lavoro è troppo elevato e che deve ridurlo. A questo proposito, tenta di far firmare nuovi accordi contrattuali con i singoli giornalisti ma questi, annusano l’inghippo e si rifiutano. Quindi, chiede il ricorso alla cassa integrazione che, ovviamente, gli viene negato dal sindacato perché si rifiuta di presentare un piano editoriale degno di questo nome. Ai giornalisti vengono pagati solo due mesi (tra l’altro con i soldi del loro Tfr…), poi più nulla. Quattro colleghi, tra cui il fiduciario di redazione, vengono licenziati, gli altri si dimettono per giusta causa, visto che non vedono il becco di un euro… L’Associazione Lombarda dei Giornalisti si rivolge alla magistratura ex art. 28 dello Statuto dei Lavoratori, per comportamento antisindacale di Caso, vincendo. Nel contempo i singoli giornalisti fanno causa a Dprint perché ceduti scorrettamente all’editore romano. La vincono pochi giorni fa. Il giudice ordina il reintegro in Dprint e il pagamento di quanto non percepito dai colleghi venduti indebitamente. Veniamo a Dprint: nell’intento di svuotare la società in previsione di una sconfitta (verificatasi!) in tribunale, Farina pensa bene di trasferire il ramo d’azienda (con parere negativo del sindacato) a un’altra società costituita per l’occasione, Edizioni Vero, dopo il suo arresto passata interamente nelle disponibilità dei geniali figlioli di Mario Farina, fratello di Vittorio, attraverso la Effe editore, società editoriale che lavora per Metro. Apriamo un piccolo inciso: Mario Farina, editore di Metro, ha costretto un frettoloso Cdr a firmare, dopo anni di ammortizzatore sociale, una cassa integrazione al 50 per cento per i giornalisti del quotidiano free press, trasferendo parte del lavoro (e dei guadagni) alla Effe editore, gestita, appunto dai figli… Dprint, che aveva una cassa integrazione aperta da un anno per crisi per riorganizzazione aziendale con sei giornalisti in cassa a zero ore, passata a Edizioni Vero per la proprietà transitiva del cassaintegrato nella più totale “normalità” del Ministero del Lavoro, viene messa in liquidazione. Edizioni Vero, dopo sette mesi richiama al tavolo le organizzazioni sindacali per far brillare l’attuale accordo e aprire un nuovo stato di crisi ben più pesante, chiedendo una Cigs a zero ore per la quasi totalità del corpo redazionale. Dichiarano una perdita, in 7 mesi, di 500mila euro: ma i figlioli di Mario sanno fare il mestiere degli editori o è sempre colpa del mercato? Al tavolo ci rifiutiamo di seguire la loro strada, e cioè, un riduzione drastica dell’organico per salvare i conti della neo-formata Edizioni Vero. Domanda inevitabile a prova di scemo: ma con due giornalisti al 20 per cento di cigs e il resto a casa, come fate a fare quattro riviste di cui due settimanali? La direttrice, che prima aveva snobbato il tavolo sindacale, e poi costretta a intervenire dal sottoscritto, spiega un piano editoriale appiccicaticcio e poverello, inconsistente, dichiarando di fatto, la soppressione di molte vite lavorative. E qui dovremmo aprire un capitolo sulla “deontologia” del direttore responsabile… Forse sindacato e Ordine dei Giornalisti dovrebbero prendere posizioni ferme e comuni in proposito. Alg e Fnsi si rifiutano di firmare una tale porcata: 9 giornalisti a zero ore su 11, due giornalisti al lavoro all’80 per cento, i due direttori al 20 per cento di cigs… L’azienda rilancia con 8 persone a zero ore e tre al 70 per cento di lavoro, una direttrice a zero ore e una al 20 per cento di cigs… Il cdr si spacca: uno si dimette per coerenza, gli altri due, dopo enormi pressioni, accettano di firmare un accordo capestro perché l’assemblea ha deciso così, pressata in maniera indicibile dall’azienda e dai grafici editoriali messi ad arte contro i giornalisti nella classica, ma pur sempre efficace, guerra tra poveri. Morale: il padrone ha sempre ragione, soprattutto se si muove agilmente ai limiti della legge e del contratto, i colleghi impauriti cedono per ignoranza contrattuale e paura di perdere il posto di lavoro, miscela davvero esplosiva. Ma d’altronde vedremo lo stesso film fra una settimana alle elezioni parlamentari… In quest’Italia stagnante tutto cambia, e in peggio. L’assurdo è che la fine non è vicina, anzi, è un supplizio di Tantalo, che si ripete senza fine. Marx, da eccellente osservatore, avrebbe un moto di ragionevole fierezza per quanto teorizzato nei suoi studi, Hegel farebbe difficoltà ad ammettere la realizzazione del lavoro nell’essere umano ridotto a servo della gleba di padroncini ignoranti e senza scrupoli. E il sindacato? Lotta con le armi che ha, venendo spesso accusato di essere “morbido” e di fare gli interessi degli editori. Una lotta donchisciottesca dall’amaro e grottesco sapore di presa per il culo, tanto per usare un termine dotto e chiaro.