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Doppio addio a Enzo e alla città fabbrica


quellicheIn effetti sembrava che tutti piangessero lui, con cui si erano tanto a lungo e intensamente accompagnati da credere di averlo avuto davvero come amico segreto, come stralunato compagno di banco o di officina o di bar o di stadio. Invece piangevano i perduti sè stessi, i milanesi bonari e ironici (sintesi manzoniana: bonomìa) che erano o si raccontavano di essere stati, piangevano di struggente nostalgia - senza distinzione milanesi doc, milanesi ariosi, milanesi al ciento per ciento - e anche un po' di rabbia per un presente disistimato. Oggi ad evocare questi "tutti", quelli che al funerale avevano partecipato o quelli che l'han sentito in radio o tivù oppure quelli che ciascuno de per lù s'erano fatta una piangiutina solitaria, ci ha pensato Basilio Rizzo, presidente del Consiglio comunale. Che, sullo sfondo musicale di "Vincenzina e la fabbrica", ha ricordato il cittadino benemerito di Milano, Enzo Jannacci. Con queste parole: "Resterà a lungo nella storia della città il ricordo delle migliaia di persone che hanno voluto dare l’estremo saluto ad Enzo Jannacci. Un affetto profondo, radicato nel tempo e che si è materializzato sincero, sentito, spontaneo, individuale e collettivo al tempo stesso nelle code al Dal Verme, nella folla a S. Ambrogio. Milano ha molto amato Enzo Iannacci, come Lui ha intensamente amato Milano. Nato a Milano il 3 giugno 1935 fu tra i pionieri del rock’and’roll italiano insieme a Celentano, Little Tony e al suo amico fraterno Giorgio Gaber, conosciuto al liceo e con il quale formò un sodalizio non solo artistico durato quarant’anni. Amicizia fraterna fu anche quella con l’indimenticato Beppe Viola con il quale scrisse, “Quelli che..” diventata poi sigla televisiva del famoso programma sportivo della RAI. Dopo gli studi liceali Enzo Jannacci si diploma in armonia, composizione e direzione d’orchestra al Conservatorio di Milano, successivamente, a metà degli anni sessanta si laurea in medicina all’Università di Milano e si specializza in Sudafrica entrando nell’equipe di Christiaan Barnard. Visse anche la professione medica alla sua maniera, criticandone gli eccessi di divismo e sottolineando che in essa dovesse prevalere l’aspetto di missione e di aiuto al prossimo. Lavorò così fino al giorno della pensione – il 1° Gennaio 2003- ! coincidenza delle date! Proprio il giorno della morte del suo grande amico Giorgio Gaber. La carriera di musicista inizia negli anni Cinquanta, all’età di vent’anni inizia a frequentare gli ambienti del cabaret, mettendo subito in mostra le sue doti di intrattenitore e presentatore, si avvicina al jazz e inizia a suonare in alcuni locali milanesi. Poi le canzoni di grande successo, il cabaret, la scrittura impegnata ed il teatro; cantava la sua Milano scrivendo gran parte dei suoi brani in dialetto, dipingendo spesso personaggi disperati e sfortunati, gli ultimi, non i primi (l’Armando, Vincenzina davanti alla fabbrica). ”El purtava i scarp del tennis”, canzone che racconta di un “barbun” , ha dato anche il nome e non a caso ad una rivista edita dalla Caritas dedicata ai senzacasa. Negli anni 80 scrive l’inno del Milan di cui è sempre stato tifoso. Importante il sodalizio artistico con l’amico di sempre Dario Fo, con Cochi e Renato, Paolo Conte, Gino e Michele. E infine il “sodalizio” del cuore, quello con il figlio Paolo, valente pianista, compositore e arrangiatore.(che è qui con noi). Alla domanda. “Chi era Jannacci?” Dario Fo in una commossa intervista di questi giorni ha risposto con parole che voglio qui riprendere: “Enzo era un magnifico folle. Era regolato, nei suoi ritmi interiori ed esteriori, dalla sua follia. Follia del linguaggio – quanti neologismi, quante invenzioni! – follia di comporre e di suonare. Uno di quelli, e sono davvero pochi, che han creato un nuovo modo di esprimersi. Jannacci ha trasformato la vecchia canzone all’italiana in un’opera d’arte. Con nozione di causa, con sapienza di musicista e di interprete. “Era un raffinato della trasformazione. Ha preso le sue radici meridionali di parte paterna e le ha intrecciate con quelle lombarde, con le nebbie milanesi, i fari gialli dei tram d’inverno, le fabbriche, le tute, il lavoro operaio. Ha fatto funzionare due macchine culturali molto diverse tra loro, ma non ha tolto a nessuna delle due le sue caratteristiche”. Un' ultima notazione vorrei fare - doverosa credo - perché siamo qui nella casa comune di tutti i milanesi . Jannacci ha fatto un uso meraviglioso del dialetto così da descrivere al meglio la carica di umanità del vissuto della città. Con padronanza e naturalezza. Con le storie ed i personaggi delle sue canzoni ha fissato una sorta di straordinario fermo-immagine della Milano del suo tempo. Per noi suoi contemporanei ogni nota, ogni strofa ne richiamerà per sempre la nostalgia; per i più giovani e per chi verrà poi la sua poesia resterà uno strumento insostituibile per conoscere nel profondo la Milano di questi decenni. E’ stato autorevolmente detto che la perdita di Enzo Jannacci rappresenta la fine di un’epoca. “E’ come se un’intera Milano abbia preso congedo da noi e chissà se sapremo ritrovarla. Speriamo, nel ricordo dell’ illustre cantore che oggi onoriamo, di saperne far crescere, in questi anni, una di pari umanità.
       
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