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Dell'Ordine, cosa tenere e cosa cambiare. Radicalmente


di Pino Rea L’ Ordine dei giornalisti è una delle varie anomalie italiane. Nel male ma anche nel bene. Fa parte della nostra cultura sedimentata, ormai. Possiamo abolirlo? Certo. Ma la nostra democrazia se ne avvantaggerebbe? La Corte Costituzionale, a più riprese ha confermato la sua legittimità e la sua conformità al dettato costituzionale, riconoscendo che la legge 69/1963 disciplina esclusivamente il giornalismo come professione e, quindi, non limita in nulla l’accesso ai mezzi di informazione come libera espressione del pensiero. E ha indicato molto bene la specificità e la rilevanza della funzione del giornalismo: È competenza dei giornalisti la ricerca, l’elaborazione, il commento, la verifica delle notizie. Non sono di pertinenza giornalistica prestazioni attinenti alle informazioni di servizio, pubblicitarie e di contenuto commerciale.Senza queste premesse, osservava il Documento di indirizzo per la Riforma dell’ Ordine dei giornalisti (http://www.odg.it/files/Riforma_odg.pdf) approvato all’unanimità dal Cnog a Positano, 16 e 17 ottobre 2008, lo status del giornalista sarebbe riconducibile a quello di un impiegato, vincolato agli obblighi di fedeltà verso la propria azienda (art. 2105 Codice Civile). Non potrebbe esistere un potere del direttore di testata autonomo rispetto alla proprietà; né il diritto del singolo giornalista di difendersi da censure o modifiche apportate da altri a ciò che ha scritto. Cadendo poi il segreto professionale, le fonti fiduciarie non si sentirebbero tutelate, e la conseguenza sarebbe una pesante limitazione della possibilità di approfondire i fatti per poi riferirli al pubblico. Ecco. Queste indicazioni spingono a ritenere non praticabile la strada dell’ abolizione dell’ Ordine e molto pericoloso il tuffo nel buio della liberalizzazione totale della professione. E stimolano invece a immaginare una profonda torsione dell’ Ordine stesso e della cultura che esso si porta dietro (e che si respira così pesantemente in molte delle riunioni del Cnog). Contenere il ‘’male’’ e allargare, per quanto possibile, il ‘’bene’’ Per farlo però l’ Ordine dovrebbe scegliere una fisionomia del tutto nuova, abbracciando la politica dell’ apertura, dell’ inclusione, non quella della chiusura sempre più corporativa in nome di una mitica ‘’purezza’’ di principi smentita sempre più spesso dalla realtà e da meccanismi di funzionamento interni assolutamente folli e sempre meno efficace sul piano della ‘’moral suasion’’ nei confronti della professione concreta. Parallelamente all’ impegno per la difesa della dignità di chi fa questo lavoro (nuovi contratti, equo compenso, Carta di Firenze), l’ Ordine dovrebbe diventare una sorta di Agenzia nazionale, il cui compito principale non sarebbe la tenuta dell’ albo (la disciplina sta scivolando altrove) ma la cura e la diffusione della parte migliore del patrimonio del giornalismo professionale italiano, così come si è sviluppata in questi decenni nel nostro paese (e che spesso purtroppo dimentichiamo), attraverso una lotta aperta e decisa alla deriva di quella parte sempre più vasta di giornalismo che si sente invece parte e partito o strumento di intrattenimento e spettacolo o canale di propaganda e marketing. E’ una battaglia politica e culturale, che ha fra i suoi primi obbiettivi l’ urgenza di riaprire al più presto il fronte per la riforma. Una riforma che rimedi ai possibili guasti determinati dal governo Monti con i decreti su disciplina e formazione permanente (fatti senza un confronto serio e in maniera del tutto episodica) e affronti l’ elemento chiave della professione: quello dell’ accesso, attraverso un canale unico, la formazione universitaria. Una riforma che, inoltre, dovrà tenere conto delle profonde trasformazioni che le tecnologie digitali hanno indotto, incrinando il ruolo di mediazione monopolistica del giornalismo professionale e stimolando la nascita di un giornalismo diffuso, del reticolo di miriadi di ‘’atti di giornalismo’’ che vanno nello stesso tempo protetti e responsabilizzati. Il cittadino che fa del giornalismo, il giornalista volontario, il giornalista ‘’amatoriale’’ potrebbero diventare una ulteriore ‘’forza’’ del giornalismo nel suo complesso, dopo il segmento dei professionisti e quello dei ‘’pubblicisti professionali’’. Pur non essendo iscritti all’ Ordine (o non avendo alcuna intenzione di farlo) questo giornalismo diffuso dovrà essere dirottato all’ interno dello stesso ecosistema contaminandolo con la stessa cultura etica e professionale del giornalismo di qualità. Che va condivisa e diffusa con l’ obbiettivo di conquistare la egemonia sul mondo dell’ informazione e non conservata come un codice da riserva indiana. Su questo piano, dal punto di vista legislativo, suggerisco due emendamenti dell’ articolo 2 della Legge istitutiva (in rosso le aggiunte). 2. Diritti e doveri. È diritto insopprimibile dei giornalisti, in quanto cittadini, la libertà di informazione e di critica, limitata dall' osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede. Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte, e riparati gli eventuali errori. Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse, e a promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori. Il presente articolo si estende a tutti i cittadini in relazione a una loro eventuale attività giornalistica anche di tipo occasionale o volontaria o non professionale. Il principio è che, a livello collettivo, non contano tanto ‘’i’’ giornalisti, quanto ‘’il giornalismo’’, l’ informazione giornalistica che viene prodotta e i cui ‘’portatori’’ devono essere fieri di difendere. In quanto tutti inclusi nello stesso sistema di valori e di pratiche e nella stessa specificità di servizio pubblico. Lo ha detto molto bene qualche giorno fa Cesare Martinetti sulla ‘’Stampa’’ : Se non volete chiamarlo «Ordine» chiamatelo registro o qualcos’altro, toglietegli qualunque sospetto di privilegio o di esclusività, dategli regole che lo facciano aperto e non escludente. Ma noi crediamo che la difesa di un’idea precisa – quella che abbiamo detto – della professione del giornalista debba rimanere. Consideriamo l’Ordine dei giornalisti come un insieme di regole che dà un inquadramento a questo nostro lavoro e lo rende responsabile di fronte ai nostri lettori e all’opinione pubblica in generale. Non certo come una barriera difensiva e corporativa per chi ne fa parte. Consideriamo giusto che vi siano delle norme da rispettare a garanzia di una professione che proprio il moltiplicarsi convulso di forme e di piattaforme creato in questi ultimi anni da Internet ha reso – a nostro giudizio – ancora più necessaria. Il giornalismo «cittadino» è una ricchezza che la blogosfera ha incentivato e che rende, semmai, più stimolante nell’incalzare il lavoro dei professionisti Un canale di accesso unico Per quanto riguarda l’ accesso, il documento di Positano rimane il punto più avanzato che il dibattito sulla riforma dell’ Ordine abbia raggiunto ed è da lì che bisognerebbe ripartire. È maturo un cambiamento, che preveda un canale di accesso unico attraverso: a) una fase di formazione preliminare coincidente con la laurea (laurea triennale se ci riferisce al nuovo ordinamento oggi in vigore) conseguita nelle università italiane e nelle università estere i cui stati riconoscano la reciprocità; b) una seconda fase di specializzazione, di due anni, da realizzare in forme diverse, e cioè: - laurea magistrale in giornalismo che conduca all’esame professionale; - master specifico riconosciuto dall’Ordine dei giornalisti; - scuole di giornalismo collegate ad una struttura universitaria. Per un periodo transitorio straordinario di cinque anni gli editori potranno continuare a usufruire della chiamata diretta in redazione di giovani laureati, ma esclusivamente con il contratto di praticantato, da accompagnare con un percorso di formazione stabilito e verificato dall’Ordine dei giornalisti. Il documento approvato invece dal Consiglio nazionale attuale, il 19 gennaio 2012, è un evidente passo indietro, visto che non limita a un periodo transitorio (5 anni) il potere degli editori di continuare applicare la strada del praticantato aziendale*, ma continua a prevederlo in generale come una delle strade possibili, al pari della formazione di tipo universitaria. Professionisti e pubblicisti professionali Nella analisi sul ‘’pubblicismo professionale’’ pubblicata su Lsdi, ma fatta soprattutto per il Cnog - http://www.lsdi.it/2012/il-pubblicismo-professionale-e-la-precarieta-nel-lavoro-autonomo-un-approfondimento-con-nuovi-dati-inpgi/ -, segnalavamo ‘’la presenza di un ampio segmento interno al pubblicismo (circa il 30% dei pubblicisti iscritti all’ Ordine) che ormai ha poco a che fare con il pubblicismo classico ed è già a pieno diritto nella sfera del  giornalismo professionale’’, aggiungendo che oltre 9.000 pubblicisti – il 13% degli iscritti -  hanno un reddito giornalistico annuo superiore ai 5.000 euro (che è poi la soglia minima, ad esempio, per cui in Francia si può ottenere la Carte de Presse, che certifica lo status di professionista). A livello di ‘’attivi’’ saremmo intorno ai 40.000: 20.000 professionisti, 9.000 ‘’professionabili’’ (con l’ obbligo di condizioni per l’ accesso analoghe a quelle dei professionisti, e quindi anche del superamento di un esame) e 11.000 collaboratori (in cui sono presenti pubblicisti classici ma anche fasce di precari iper-sottopagati che non riescono a raggiungere un tetto minimo di reddito professionale): una massa professionale più o meno ‘’compatibile’’ con un mercato come il nostro. Questi ultimi 11.000 versano i contributi all’ Inpgi e come tali fanno del giornalismo professionale pur non essendo il giornalismo la loro professione esclusiva o prevalente. O pur non ricavando un salario minimo decente. E i 50.000 pubblicisti  fantasma? ‘’Sono pubblicisti coloro che svolgono attività giornalistica non occasionale e retribuita anche se esercitano altre professioni o impieghi’’ spiega l’ articolo 1 della legge sull’ Ordine. Ma le norme sulla previdenza prevedono che per l’ attività giornalistica retribuita non occasionale è obbligatorio versare i contributi all’ Inpgi. Per cui una buona parte di costoro (alcuni non possono versare lo stesso i contributi all’ Inpgi pur volendolo; altri sono iscritti da più di 15 anni e quindi restano pubblicisti a vita) dovrebbero di fatto essere cancellati dall’ albo. L’elenco dei pubblicisti potrebbe dunque restare, ma con l’ obbligo della contribuzione  Inpgi. A esaurimento per quelli che già ci sono. Con l’ obbligo di rispettare anche le nuove condizioni di accesso (laurea specialistica o esame di stato?) per i nuovi. --- * Accesso alla professione e tirocinio Accesso alla professione giornalistica è libero. Ferme restando l’unicità dell’Albo la permanenza dei due Elenchi e i diritti acquisiti dagli iscritti all’entrata in vigore riforma, l’accesso alla professione di giornalista dovrà avvenire attraverso l’esame di Stato. Per sostenere l’esame di Stato gli aspiranti giornalisti dovranno possedere una laurea ed aver svolto un tirocinio di 18 mesi. Le forme di tirocinio saranno individuate in un regolamento e potranno essere: - praticantato aziendale - frequenza master dell’Ordine - frequenza di corsi universitari post laurea in giornalismo - sistematica collaborazione equamente retribuita in testate giornalistiche
       
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