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Comunicatori nell'Inpgi, perchè conviene a tutti
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Di quanti professionisti si parla quando si parla di allargamento della platea degli iscritti all'Inpgi? Innanzitutto di comunicatori che in Italia, secondo una ricerca ormai d'un paio d'anni fa, erano 70mila, in gran parte rappresentati dai sindacati confederali. Secondo voci attuali sarebbero ormai lievitati a 350mila, includendo i molti che operano senza contratti e che non appartengono ad associazioni di categoria. Eppure, nel nostro dibattito si dà voce quasi solo ai comunicati della Ferpi, associazione che conta 600 iscritti e che da sempre è contraria all'ingresso dei comunicatori nell'Inpgi. Per inciso Rita Palumbo, segretaria di Ferpi (nonché giornalista professionista iscritta all'albo della Lombardia dal 1982) è una pensionata Inpgi. Vi sono altre piccole associazioni che dicono no al passaggio all'Inpgi e che in tutto, Ferpi inclusa, rappresentano fra i due ed i tremila associati, di cui però solo la metà sono comunicatori e quasi tutti liberi professionisti. Da tre anni ormai l'ipotesi che i comunicatori del settore pubblico e di quello privato vengano assicurati all'Inpgi, insieme a tutte le nuove figure del mondo digitale, è diventata più concreta. A chi si fa impressionare da certi comunicati, sempre uguali da tre anni, si consiglia vivamente la lettura di un articolo del dicembre 2018 (la datazione risulta chiara dai nomi degli allora principali attori politici), tratto dal sito della Associazione italiana del calcolo automatico (https://www.aicanet.it/ ), una delle più longeve associazioni attive nel mondo digitale, da prima che la parola "informatica" entrasse nel lessico comune. Ancora molto attuale ed esaustivo: "Riuscirà la previdenza laddove non è (finora) riuscita la politica? L'emendamento Durigon alla legge di bilancio (dal nome del proponente, sottosegretario al Lavoro) farebbe pensare di sì. L'obiettivo dell'emendamento - presentato alla Camera, poi ritirato prima del voto di fiducia perché legato a pensioni e reddito di cittadinanza ma ora in viaggio verso il Senato - è tanto semplice quanto ricco di conseguenze sul lavoro pubblico. In poche parole, l'idea è di trasferire tutti i comunicatori, sia pubblici sia privati, dall'Inps all'Inpgi, la cassa previdenziale fino ad oggi riservata ai soli giornalisti, titolari di relativo contratto (gestione ordinaria, contributi a carico delle aziende) o autonomi (gestione separata). A causa dello squilibrio sempre crescente fra prestazioni erogate e contributi versati - dovuto al crollo delle assunzioni nel settore giornalistico - il bilancio dell'Inpgi è da anni in passivo, per il momento riequilibrato da varie iniziative fra cui la vendita di immobili. Con questo trasferimento, i conti dell'istituto si raddrizzerebbero: l'entità delle nuove entrate è stimata in 120-130 milioni di euro annui. Un costo, peraltro, molto inferiore a quello che costerebbe all'Inps (o meglio costerà, se non si interviene in fretta) l'assorbimento totale della previdenza dei giornalisti: circa 6-700 milioni. “Ma all'aspetto economico se ne aggiunge un altro di grande rilievo. Se l'emendamento passerà, avremo un'area comune informazione-comunicazione, un polo pensionistico che rapidamente potrà diventare professionale, e quindi da un lato favorire il miglioramento delle prestazioni al cittadino, dall'altro ispirare una nuova legislazione della comunicazione pubblica. Come spiega Giulio Savelli sul Corriere, «sarebbe una rappresentazione più adeguata dei tempi che cambiano», per «una categoria priva di riconoscibilità eppure fondamentale nel mondo dell'informazione», cioè i nuovi comunicatori che operano nel settore delle relazioni con il cittadino-cliente, muovendosi su piattaforme web e social e gestendo interazioni sempre più raffinate perché spesso in tempo reale e caratterizzate da codici comunicativi specialistici. Si pensi ai social media strategist o alla trasparenza totale, introdotta nel sistema italiano dal Dlgs 97/2016 (cosiddetto 'Foia italiano'), che presuppone un dialogo informativo e collaborativo con il richiedente l'accesso generalizzato e quindi esige una professionalità molto duttile e qualificata. Passi avanti finora erano stati fatti, in particolare nell'ultima tornata dei contratti pubblici (autunno 2017-primavera 2018). In tutti e quattro i nuovi accordi - funzioni centrali, funzioni locali, sanità e istruzione - erano stati introdotti i nuovi profili dello «specialista in comunicazione istituzionale» e del «giornalista pubblico», che, sia pure in modo ancora confuso, superavano le ripartizioni della legge 150/2000 (uffici stampa, Urp e portavoce). Il contratto del settore istruzione si spingeva fino a delineare un'area comune informazione-comunicazione, proprio nello spirito di quel lavoro di squadra ripreso anche dai modelli proposti della Federazione della Stampa e dall'associazione PAsocial: un ufficio unico "comunicazione, stampa e servizi al cittadino" composto di 5 desk (trasparenza e contatto con il pubblico, informazione, media relations e social, organizzazione di eventi, partecipazione civica, consultazioni pubbliche e citizen satisfaction, comunicazione interna), gestiti dai profili distinti del giornalista pubblico e del nuovo comunicatore. A valle della fase contrattuale (che oggi già si riapre, visto che i contratti chiusi riguardavano il triennio 2016-2018), nel maggio 2018 la Federazione della Stampa aveva fissato con l'Aran un ulteriore percorso definitorio dei profili, in cui, oltre a precisare meglio le competenze di giornalisti e comunicatori della Pa, si sarebbe dovuto discutere in che modo questi professionisti avrebbero potuto aderire ad Inpgi, Casagit e Fondo complementare (un passaggio, del resto, già indicato nei 4 Ccnl). La cornice di questo percorso era, con tutta evidenza, la necessità di un lavoro comune fra operatori pubblici che già da anni sono sulla stessa trincea, quella della qualità della prestazione al cittadino e, in ultima istanza, della citizen-customer satisfaction. Non certo per caso, «l'esperto in qualità della prestazione» è uno dei profili professionali richiesti dal Ministro Pa Giulia Bongiorno, prima nel ddl concretezza e ora nel decreto semplificazioni, i due provvedimenti che avviano il turn over delle assunzioni pubbliche. L'emendamento Durigon Fin qui la strada percorsa, su cui irrompe un'iniziativa legislativa - l'emendamento Durigon - che appare particolarmente centrata. Va detto che è subito giunto un 'altolà' piuttosto pesante, quello del presidente dell'Inps Tito Boeri, secondo cui tale operazione scaricherebbe sulla previdenza generale i problemi di bilancio dell'Inpgi. A Boeri sono pervenute secche repliche, sia politiche sia sindacali. Sebastiano Cubeddu (M5s), membro della Commissione Lavoro della Camera, ha affermato che «Boeri, affermando che la proposta iscrizione dei cosiddetti comunicatori all'Istituto di Previdenza dei Giornalisti sarebbe uno 'scippo' all'Inps, mente sapendo di mentire. Nessuno scippo: l'Inpgi attua la previdenza in favore dei giornalisti in regime 'sostitutivo' dell'Inps e svolge le sue funzioni nell'ambito delle funzioni attribuite da leggi dello Stato, concorrendo alla corretta gestione della previdenza generale nel rispetto dei principi e delle regole di sostenibilità della stessa. L'estensione della platea degli iscritti ai 'comunicatori' tiene conto dell'evoluzione del giornalismo e delle sue peculiarità». Sul piano sindacale, i segretari dei sindacati confederali Fabio Migliorini ( Fp Cgil), Andrea Ladogana ( Cisl Fp), Pierluigi Sernaglia( Uil PA), hanno dichiarato che «la natura pubblicistica della previdenza dei professionisti è garantita costituzionalmente, e gli oneri derivano dalla contribuzione degli editori in quanto datori di lavoro. La necessità di allargare la platea degli iscritti, così come previsto dall'iniziativa intrapresa dal Ministro Luigi Di Maio, punta a mantenere e salvaguardare l'erogazione delle pensioni ai giornalisti e non implica, come affermato dal presidente dell'Inps, Boeri, un aggravio dei costi da scaricare sulla collettività; al contrario, si ritiene fondamentale l'ampliamento della platea dei contribuenti di Inpgi proprio al fine di non gravare sulla finanza pubblica». Al sostegno dei confederali (e del sindacato dei giornalisti), si unisce quello di strutture come PAsocial e Associazione italiana della comunicazione pubblica. Il presidente di PAsocial, Francesco Di Costanzo, giudica l'emendamento 'un tassello importante' per «il riconoscimento delle nuove professionalità e una nuova organizzazione della comunicazione pubblica che tenga dentro tutte le competenze (giornalisti, comunicatori, nuove professioni del web e del digitale), dia maggiori opportunità a tutti, superi la logica dei compartimenti stagni con l'obiettivo di dare servizi e informazioni di qualità ai cittadini, anche e soprattutto attraverso social, chat e tutte le opportunità messe a disposizione dal web». PAsocial, in questo quadro, ha chiesto al Ministro Bongiorno che "una quota minima del 5 per cento nel piano nazionale assunzioni pubbliche sia dedicata ai profili della comunicazione digitale", e che venga avviato il lavoro per una «legge 151» che superi la 150, per rendere possibile il cambio di passo di una comunicazione che deve avere «il cittadino al centro. Su una linea non molto diversa l'Associazione italiana della comunicazione pubblica. Il segretario generale Pier Carlo Sommo evidenzia che «la professione del comunicatore pubblico spesso si interseca e si affianca a quella del giornalista pubblico; i due profili previsti dal contratto nazionale operano entrambi nello stesso ambito culturale». Nel merito, l'Aicp rivendica di aver prima dell'estate incontrato i vertici Inpgi dicendosi già in quell'occasione favorevole all'adesione dei comunicatori all'Istituto di previdenza dei giornalisti. «I comunicatori pubblici iscritti a Compubblica - aggiunge Sommo - ottengono il riconoscimento professionale previsto dalla legge 4/2013 - Disposizioni in materia di professioni non organizzate - che costituisce sistema di riconoscimento e tutela delle professionalità che si affianca agli ordini professionali. La richiesta di tesseramento ex lege 4/2013 è fra le istanze inoltrate ai sindacati confederali e all'Aran per i profili degli 'specialisti della comunicazione istituzionale' contenuti nel nuovo contratto nazionale dei dipendenti pubblici. Tale posizione richiede la laurea in comunicazione o equipollenti». L'Associazione della Comunicazione pubblica conclude sottolineando che anche la Conferenza nazionale delle Facoltà e dei Corsi di laurea in Scienze della comunicazione (che si riunisce a Palermo il prossimo 14 dicembre, ndr) ritiene il riconoscimento di grande rilievo, «affinché vi sia pari dignità con l'area informazione che richiede l'iscrizione all'Ordine dei giornalisti». Unica voce dissonante fra le associazioni, quella della Ferpi (federazione relazioni pubbliche italiana), che «manifesta tutta la propria perplessità, invitando alla mobilitazione e al dibattito anche le altre sigle e associazioni che in Italia rappresentano la comunità professionale dei comunicatori». «Intendiamo impegnarci - aggiunge il segretario Ferpi Pier Donato Vecellone - per stimolare una riflessione più profonda sul ruolo dei comunicatori, sullo status professionale, sulle caratteristiche distintive e sulla differenza, netta e precisa, sebbene dinamica e in evoluzione, con il ruolo dell'informazione e del giornalismo». Intanto, come a rimarcare la distanza fra il dibattito politico-sindacale e la vitalità del mercato, proprio in questi giorni, l'Osservatorio delle competenze digitali (Aica , Anitec-Assinform, Assintel e Assinter Italia in collaborazione con Miur e Agid) fornisce cifre molto eloquenti: le offerte legate alle professioni digitali hanno toccato quota 64mila lo scorso anno (numero raddoppiato in soli 4 anni), e la domanda è destinata ad aumentare ulteriormente, toccando nel 2019 quota 88mila. Mancano però i profili in grado di intercettare questa ondata. Insieme all'Ict, è il settore dei servizi ad avere la quota maggiore (20%) della domanda di professionisti per la trasformazione digitale: i più richiesti sono l'operation manager (56%) e il digital media specialist. Insomma, le aziende stanno accelerando il passo verso il cloud, i big data e la cybersecurity,ma faticano a reperire le competenze tecnologiche necessarie. E se le Università, sul piano strettamente formativo, sono ben lontane dal seguire questo trend, figuriamoci gli uffici pubblici, che devono tradurre le competenze in azioni di interesse generale. In questo scenario, il polo pensionistico-professionale informazione e comunicazione sarebbe solo il primo passo da compiere."