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Ci basta la riformina dell'Ordine?


Questo il testo dell'intervento svolto da Michele Urbano all'assemblea nazionale di Autonomia e Solidarietà su riforma dell'Ordine e identità professionale.Cominciamo dalla cronaca. La Camera ha licenziato una “riformina” della vecchia legge del ’63 che lascia parecchio insoddisfatti. Non tanto per la depennata proposta del giurì (che comunque viene sostituita da una commissione deontologica) quanto per la sparizione – questa sì inaccettabile – della cosiddetta via universitaria al giornalismo. Inaccettabile perchè proprio sull’accesso unico, dopo tante discussione e polemiche, la categoria sembrava aver trovato una convergenza sostanziale. Che fare a questo punto? Facciamo subito rullare i tamburi della protesta o forse è meglio imboccare la strada della sollecitazione critica sperando che nel passaggio al Senato  la via universitaria torni nella proposta? Io personalmente sono per la seconda strada perchè riterrei un errore azzerare i piccolissimi quanto faticosissimi passi finora fatti. Prudenza e ancora prudenza. Nella consapevolezza, però, che di riforma non si potrà parlare se non viene cancellata proprio la spia della nostra confusione identitaria: l’accesso alla professione così come avviene oggi. Vi sembrano pochi cinque modi per diventare giornalista? Ricordo, giornalisti oggi in Italia si diventa: 1) attraverso il praticantado classico; 2) attraverso il praticantado per i freelance; 3) attraverso il praticantado d’ufficio; 4) attraverso le scuole riconosciute dall’Ordine; 5) attraverso il canale del pubblicismo. E tralascio, per carità di patria, l’elenco speciale che a rigore è un altro canale di accesso. No, non è normale che si possa fare una professione con cinque diversi modi di abilitazione. Mi sia permessa una brevissima considerazione con una domanda finale. Oggi, a causa della deregulation contrattuale, molti collaboratori precari scelgono l’iscrizione all’albo dei pubblicisti perchè è la via meno difficile per ottenere un minimo di identità professionale. Quindi un pubblicismo anomalo considerando che l’attività esercitata è quella esclusiva propria del giornalista professionista. Ma attenzione. Il precariato ha prodotto anche un’estrema flessibilità dei ruoli lavorativi. Faccio un esempio reale. In un capoluogo del centro Italia lavora un giovane iscritto all’albo dei pubblicisti che somma il lavoro di corrispondente per due giornali (uno regionale, l’altro nazionale) a quello di insegnante (precario) nella scuola pubblica. Difficile valutare quale sia la sua attività prevalente. Le due attività producono nell’arco dell’anno redditi simili. E perfino come impegno di tempo, su base mensile, non c’è grande differenza (con una prevalenza dell’attività giornalistica). Domanda: dove incaselliamo questa figura? Dunque anche il pubblicista sta cambiando. E forse questo meriterebbe un minimo di riflessione. Con una domanda senza nessuna polemica o retropensiero: oggi, anno 2011, ha ancora un senso l’albo dei professionisti da una parte e quello dei pubblicisti dall’altro? Faccio - e mi faccio - questa domanda  pensando ai 78 consiglieri dell’Ordine che lamentano il rapporto due a uno inserito a sorpresa dal legislatore nel testo della riformina. Premesso che non poteva fare altrimenti visto che su quel rapporto funzionano tutti gli ordini regionali (sei professionisti contro tre pubblicisti) e che lo stesso meccanismo elettorale per l’elezione del Consiglio nazionale si fonda sul rapporto 500 voti per un professionusta, mille per un pubblicista, mi chiedo se questa discussione abbia un senso. Se non sia il caso di cominciare a dire un’ovvietà che nell’Italia di oggi per qualcuno potrebbe sembrare un’eresia: ossia, che è giornalista chi esercita – potendolo dimostrare – il mestiere del giornalista. Punto. Nè professionisti, nè pubblicisti. Un Ordine di giornalisti formato dagli attuali professionisti e dai pubblicisti che possono dimostrare di esercitare questo mestiere. Prevedendo ponti d’oro, ossia una lunga fase transitoria – che nella proposta di riforma era prevista mentre il legislatore l’ha ignorata - con esame finale facilitato, per l’inserimento nel nuovo albo dei pubblicisti che svolgono l’attività giornalistica. In questo modo, tra l’altro, verremmo incontro ai tanti pubblicisti forzati (soprattutto nell’emittenza locale) ossia a quei colleghi che non possono diventare professionisti perchè l’editore - che li paga con contratti spesso stravaganti - li licenzierebbe per evitare il contratto giornalistico. Ma torniamo al filo conduttore. Cinque o sei diversi modi per diventare giornalisti significa anche un’altra cosa: che rispetto alla capacità professionale del giornalista esistono cinque o sei diverse certificazioni. Quella dell’editore, quella dell’Ordine, quella delle scuole, e ancora quella dell’editore, o di più editori, per i pubblicisti. Ammettiamolo, è tutto molto singolare. Permettetemi solo una battuta: fareste fare il progetto di una casa ad un ingegnere riconosciuto d’ufficio dall’Ordine o prima vi informereste sul suo voto di laurea e sull’università che l’ha rilasciata? La crisi d’identità che stiamo vivendo ha anche un’altra causa: la tecnologia.  Ovvero,  come si è modificata la qualità del mestiere sotto la spinta dell’innovazione. Che proprio nel settore delle comunicazioni è stata straordinaria. Facciamo un salto all’indietro. Sino alla fine degli anni Sessanta la situazione era sostanzialmente identica a quella che si viveva mezzo secolo prima. Quotidiani, periodici e radio di Stato: era questa la struttura dell’informazione italiana e non solo. Il primo scossone arriva alla fine anni Sessanta, primi anni Settanta con il diffondersi delle cosiddette radio libere. Rapidamente l’offerta di comunicazione via radio anche in Italia si moltiplica. Ma anche i problemi aumentano.  E’ un po’ come oggi per internet: chi controlla la qualità dell’informazione? Banalmente, la sua veridicità, la sua attendibilità? Nessuno. Il controllo deontologico? Non esiste. All’Ordine nessuno pensò di istituire un minimo di monitoraggio sulla qualità dell’informazione sviluppata dalla radio libere e non solo. Per la verità, non si è fatto 40 anni fa, ma con indomita coerenza non si fa nemmeno oggi. Monitoraggio che peraltro non è previsto da nessuna parte – ma nemmeno, in verità, negato. Controlli sindacali? Non scherziamo. E, infatti, anche oggi sono rare le radio con un minimo di tutela contrattuale. Il secondo scossone arriva una quindicina d’anni dopo. In Italia la  prima trasmissione Tv è del 3 gennaio 1954. Il successo è lento. Nel 1960 gli abbonati Rai erano poco più di 2 milioni. Il boom arriva solo con la piena occupazione, quando tutte le famiglie dopo aver comprato frigo e lavatrice si comprano la Tv. Ma in fondo cambia poco.  La Rai modello Dc è prudente quanto rassicurante. Il terremoto comincia 31 anni dopo, il 4 febbraio 1985 quando Craxi con decreto permise, di fatto, la trasmissione in ambito nazionale a Mediaset (che ancora si chiamava Fininvest). Fu allora che nacque il duopolio generalista che tuttora dura. Anche se con un terzo incomodo: la Tv a pagamento che nasce, a sua volta, sulla spinta di un’innovazione che non è solo tecnologica (ieri la parabola, oggi il digitale, domani la web-Tv): si afferma, infatti, con un marketing molto aggressivo e con l’innovazione dell’offerta del prodotto (modellato su misura del consumatore). Pensate a Sky e pensate a un Corriere della Sera acquistabile a pezzi e a prezzi diversi: solo la cronaca, la cronaca e lo sport, solo gli spettacoli. Cosa c’entra tutto questo con la crisi d’identità? Bene, faccio una domanda senza nemmeno tentare di dare una risposta: la tecnica professionale necessaria  a un giornalista on-line per fare al meglio il suo lavoro quanto è necessaria a un cronista giudiziario? E viceversa: la capacità di scrittura, la conoscenza giuridica e il sistema di relazioni di un cronista giudiziario quanto è necessaria a un giornalista on-line? Gli esempi potrebbero continuare. Le tecniche e le qualità di un inviato televisivo coincidono con quelle di un inviato di agenzia? Temo molto poco e temo che anche il loro senso d’identità sia molto diverso. Ovviamente sui confronti potremmo sbizzarrirci. Ma fermiamoci e chiediamoci: abbiamo mai cercato di riflettere su come la tecnologia ha modificato il nostro lavoro? La qualità del nostro lavoro? Su come declinare i “giornalismi” in termini di rappresentanza sindacale, di regole deontologiche, di trattamenti pensionistici e assistenziali?  Diciamo la verità: nella sostanza si è fatto molto poco. L’ultima risposta innovativa e di peso, che io ricordi, è stata l’Inpgi 2. Ma questa pigrizia non mi stupisce. Faccio parte di una categoria che si appassiona ancora alla obsoleta distinzione tra pubblicisti e professionisti ma continua a rinviare una discussione sulla collocazione degli addetti stampa nell’albo dei giornalisti. Sia chiaro, non voglio affatto cacciarli dall’albo. Anzi. Siamo certamente della stessa famiglia. Ma non fratelli gemelli. Mi spiego. Sicuramente svolgono un lavoro che si avvale della conoscenza delle tecniche giornalistiche. Ma altrettanto sicuramente stanno dall’altra parte della barricata. L’addetto stampa fornisce notizie, il cronista le cerca. Far finta di non vedere le differenze è sciocco. Domanda: chiedere una discussione senza pregiudizi che tenti di trovare una soluzione è scandaloso?  Un albo dei comunicatori sotto le ali dell’Ordine dei giornalisti è una proposta così indecente da non meritare nemmeno un approfondimento? Non sarebbe il modo più pulito, più trasparente, per dare anche maggiore forza all’addetto stampa rispetto alle pretese dei suoi committenti che possono avere l’umana debolezza di preferire le notizie belle a quelle – per loro – così così o, non sia mai, negative. Ma torniamo a quella straordinaria evoluzione tecnologica che il nostro mondo ha vissuto in questi ultimi trent’anni (ricordate la composizione a caldo?). Tutti ci chiediamo quale sarà il futuro che ci aspetta. Detto grazie a Pino Rea e alla sua paziente quanto preziosissima opera di ricerca, approfondimento e divulgazione sulle nuove frontiere del giornalismo, nessuno, credo, lo sa. Sarà il giornale caricabile su una sottilissima pagina di plastica – diciamo così – intelligente che si può tranquillamente piegare in tasca? Sarà il cellulare sempre più computer ultraportatile? Sarà la democrazia dei blog? Vedremo. La domanda vera è anche un po’ angosciosa è: l’informazione professionale, il mestiere del giornalista come leale narratore di fatti che hanno un interesse collettivo, avrà un ancora senso, uno spazio, una domanda di mercato, una retribuzione,  o no? Diciamola tutta: se oggi la credibilità sociale del mestiere del giornalista è ai minimi termini è anche perchè della deontologia  siamo sempre stati molto disinteressati. Chiediamoci: il rispetto dei principi cardine dell’informazione (ricordo: la verifica delle fonti e la lealtà) quanto sono praticati in Italia?  Certo, all’origine di questa disinvoltura c’è molto del carattere italico (pubbliche virtù e vizi privati) ma c’è anche  un’indolenza più grave: il non essere riusciti ad adeguare il nostro mondo ai processi di cambiamenti. L’Ordine nasce nel 63 e riflette un mondo dell’informazione fatto di quotidiani, periodici, una radio e una Tv ancora elitaria (nel senso che nel 63 solo le fasce più agiate possono permettersi di acquistare un Tv). Dal 63 a oggi è passato mezzo secolo, è cambiato tutto, ma le regole, le strutture, le logiche dell’Ordine sostanzialmente sono sempre quelle. E anche dando per scontato l’approvazione – che scontata non è affatto – della riforma che vogliamo, (accesso universitario, riduzione dei consiglieri nazionali a 90 con numero bloccato)  avremmo un sistema di norme e di controlli, sicuramente meno preistorico, ma pur sempre  inadeguato rispetto ai grandi cambiamenti qualitativi intervenuti nella professione. Perchè ci metto tanta enfasi? Ma perchè, è perfino ovvio, che l’incapacità dell’Ordine a esercitare controlli deontologici non è ininfluente rispetto alla perdita di credibilità, e aggiungo, d’identità, della professione. Se il giornalista diventa ventriloquo di un gruppo economico o di una forza politica si riduce la sua identità professionale ma anche la sua credibilità sociale. E qui vorrei far notare che in questi anni in Italia, attraverso i giornali, a diverso grado,  si è prodotto un fenomeno interessante per la comunicazione politica ma devastante per la credibilità del giornalista: quello dell’opinionismo. Attenzione. Gli alfieri dell’opinionismo (come il Foglio, Libero, il Giornale, la Padania, a destra, e l’Unità, il Manifesto, il Fatto, a sinistra,  per citare i più  noti) fanno un salto di qualità rispetto alla tradizione dei giornali di partito. L’opinionista, per definizione, non è giudice terzo, nè vuole esserlo. E’, a seconda dei casi, feroce accusatore o difensore pronto a tutto. Il suo lettore non vuole essere convinto, vuole avere il piacere della conferma. Il giornalista opinionista è pubblicamente schierato e più che lettori cerca consenso. Ma quando s’imbocca la strada tutta politica della ricerca del consenso c’è da mettere nel conto anche il dissenso.  Insomma, per alcuni dirai cose sacrosante, per altri menzogne invereconde. Il ruolo terzo del giornalista? Ovvio, va farsi benedire. Con effetti a catena per la credibilità di tutti i giornalisti. Che scontano anche in questo modo una perdita d’identità. Chiusa la parentesi sull’opinionismo vorrei aggiungere una rapida  considerazione sulla nostra scarsa propensione al cambiamento anche quando si tratta  di ristrutturare, di adeguare ai nuovi tempi, la nostra casa comune. Prima parlavo dell’Ordine denunciando la sua arretratezza concettuale e organizzativa. Ma quanto sono cambiati gli istituti che storicamente la categoria si è data per proteggere la sua autonomia? Il nuovo Inpgi è del 1951 (quello dedicato a Giovanni Amendola non quello uscito dal ventennio quando era intitolato ad Arnaldo Mussolini). La Casagit è del 1974. Lo stesso Fondo che pure è la creatura più recente (1987) ha più di vent’anni. Anche per loro vale lo stesso discorso. Attorno tutto è cambiato, non il sistema di welfare che con grande lungimiranza la categoria riuscì a darsi proprio attraverso l’Inpgi e la Casagit. Va tutto bene? Non credo. Timidamente qualcuno comincia a parlarne. Ma forse una maggiore decisione per verificare nuovi modelli di welfare (penso, è ovvio, al mondo dei freelance) sarebbe più che opportuna. Non  voglio essere reticente. E’ ovvio che dello stesso male soffre la Fnsi. Ma è ovvio che per la delicatezza del suo ruolo, per la necessità di preservarne la compattezza,  è giusto essere prudenti. Sapendo però che la crisi di rappresentanza di cui soffre non si supera ignorandola. E ricordiamoci anche che la Fnsi, l’Inpgi, la Casagit, il Fondo, l’Ordine sono  anche simboli che definiscono un’appartenenza, che incidono sull’identità professionale. Indebolirli lasciandoli alla deriva del tempo è un errore che si paga. Senza identità non c’è qualità del lavoro. Anche le professioni muoiono. Ricordate la gloriosa e antica corporazione dei tipografi? Sua maestà il computer la spazzò via in un decennio. La perdità di identità fu devastante sul piano tecnico e rapidissima sul piano organizzativo e sindacale. Con l’identità non si scherza. O c’è o si diventa qualcos’altro. Appunto: noi cosa vogliamo fare da grandi? Michele Urbano
       
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