Aggiornato al

Riforma Inpgi, parte terza: le entrate e le uscite


trePer raddrizzare i conti dell'Istituto bisognerà ovviamente aumentare le entrate e ridurre le uscite. Dal primo gennaio 2016, se la riforma approvata dal Consiglio di Amministrazione verrà approvata dai Ministeri di Economia e Lavoro, non ci sarà più differenza tra i contributi - a carico di aziende e lavoratori - dovuti all'Inpgi e i contributi dovuti all'Inps. L'aliquota IVS aumenterà dell'1,53% a carico dei datori di lavoro (un punto percentuale era già stato previsto dal 2011) e dello 0,5% a carico dei giornalisti. Inoltre l'aliquota straordinaria a carico delle aziende a sostegno del costo degli ammortizzatori sociali, pari all'uno per cento, che era stata introdotta nel 2009, diviene strutturale a partire dal 2017. Per ogni giornalista assunto le aziende pagheranno quindi, a regime, il 2,53% in più di quanto previsto, e gli stipendi netti caleranno dello 0,5%. Se consideriamo anche il contributo di 5 euro al mese che da sei anni i giornalisti attivi versano al fondo per la perequazione delle pensioni più basse e il contributo aggiuntivo dell'un per cento che versano i dipendenti con retribuzioni superiori ai 44.456 euro, la misura dei contributi versati sui rapporti di lavoro attivi a sostegno dei conti dell'Istituto cresce in maniera significativa rispetto al disegno originario del sistema previdenziale dei giornalisti. Questo si determina necessariamente, in un quadro in cui il rapporto tra pensionati e attivi passa da uno su tre a uno su due. Alla luce di questa realtà non pare scandaloso prevedere un contributo al riequilibrio dei conti, finalizzato alla sostenibilità della spesa pensionistica, proporzionale al reddito e limitato nel tempo, anche da parte dei colleghi pensionati. Se infatti il contributo di solidarietà previsto dalla riforma sarà in vigore solo per cinque anni la riduzione dei trattamenti pensionistici futuri, che è la vera sostanza di tutta l'operazione, inciderà sulle pensioni dei colleghi oggi in attività in maniera definitiva. In primo luogo perché in futuro serviranno più anni di lavoro per andare in pensione, in secondo luogo perché la pensione sarà più bassa. L'innalzamento dell'età per la pensione di vecchiaia da 65 a 66 anni, dal 2016 per gli uomini e gradualmente, a regime dal primo luglio 2020, per le donne, comporterà ovviamente un aumento dei contributi, cioè delle entrate, che verranno versati per un periodo più lungo. Lo stesso meccanismo, di aumento delle entrate e riduzione delle uscite, viene determinato dal graduale innalzamento da 35 a 40 degli anni di contribuzione, o anzianità contributiva, per accedere alla pensione a 62 anni, che andrà a regime dal primo gennaio del 2022. La cancellazione della possibile pensione a 57 anni, con 35 anni di contributi, porta un ulteriore elemento di aumento delle entrate e diminuzione delle uscite. Tutti questi aggiustamenti, per certi versi molto drastici, determinano il fatto che su un singolo rapporto di lavoro i contributi verranno pagati più a lungo e le pensioni verranno erogate per meno tempo. Il sistema scelto è quello di fare un passo in questa direzione senza però agganciarsi allo schema adottato all'Inps, che prevede che l'età pensionabile aumenti automaticamente con l'aumentare della speranza di vita media; in quello schema staremmo parlando di pensioni oltre i 67 anni, proiettate verso i 70. L'altra faccia della medaglia è il taglio delle prestazioni, la parte più dolente, è chiaro, della riforma. Abbiamo ora visto chi non sarà toccato, nel prossimo capitolo vedremo quello che succederà a (quasi) tutti i giornalisti in attività oggi e ai futuri iscritti all'Inpgi. (3 - segue)
       
    Il sito Archivio notizie

logo nuova informazione