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Quali news produce l'opinionismo


di Michele Urbano A quanto pare i talk show modello Ballarò vivono un lento declino. Di spettatori. E di idee. Cosa significhi esattamente il tramonto di una formula televisiva che ha tenuto banco per un ventennio non è molto chiaro. E' solo la stanchezza fisiologica che prima o poi appare dopo una overdose di opinioni sbandierate sul ring del piccolo schermo? E' invece il preludio a un nuovo orientamento dei telespettatori che potrebbe avere a sua volta effetti sull'orientamento politico? Ovviamente nessuno lo può dire. Né si può prevedere il destino di una intera famiglia di quotidiani che sull'onda dell'opinione hanno anche loro vissuto e prosperato – adesso, ahimè per loro, un po' meno - per un ventennio. Rimane il fatto che il fenomeno dell'opinionismo – in chiave Tv o su carta - è stata una tendenza importante che ha contrassegnato nel bene e nel male la qualità dell'informazione per un paio di decenni. Ma quali erano le caratteristiche - e quindi le peculiarità – di un modello di giornalismo che ribaltava di fatto alcune regole base del giornalismo classico? E' o non è assodato che fare informazione con quella merce che si chiama “notizia” (concetto che sottintende un interesse generale) è cosa diversa da fare informazione attraverso le opinioni che per definizione sono soggettive e quindi naturalmente di parte? Se diciamo che ciò è assodato, dobbiamo anche ritenere che si tratta di una distinzione di fondo. Quasi uno spartiacque. Tra due modelli d'informazione, ma anche rispetto al ruolo “tecnico” svolto del giornalista. Sia chiaro: non si sta dicendo che uno è bello e buono e l'altro è brutto e cattivo. Non è questo il punto. Il punto centrale è in realtà costituito da una serie di domande. Vediamo. La prima: perché all'alba del terzo millennio si sviluppa nei mass media italiani un “opinionismo” così pervasivo che pur con gradazioni diverse non ha risparmiato nessuno dei protagonisti in campo, diventando una tendenza costante, pure se con diverse marcature? Le risposte a questo interrogativo possono essere parecchie. Innanzitutto che l'opinionismo costa molto meno della ricerca delle notizie. Si deve poi ricordare l'opinionismo può avere anche un altro vantaggio economico: àncora il giornale a un (e)lettorato che può determinare la fortuna (o la sopravvivenza) del giornale stesso. Inutile dire che che la tendenza si riscontra sia a destra che a sinistra. Il Foglio, Libero, il Giornale, come il Manifesto, l'Unità o il Fatto, si differenziano nella rappresentazione delle opinioni, non nella formula. Stessa distinzione si può fare in chiave televisiva. Bruno Vespa (tg1) non era Floris (tg3) così come, per Mediaset, Emilio Fede non era Liguori. E venendo all'oggi Giannini non è Santoro e nemmeno Porro o Paragone. Ognuno di questi rappresenta, infatti, un'opinione o se si preferisce una chiave di lettura della realtà. Ma appunto, perché avviene questo? La domanda è tutt'altro che peregrina e solleva più inquietudini che certezze. Viene infatti alla mente il panorama editoriale della Parigi nei giorni successivi a quel decisivo (per la storia della democrazia) martedì 14 luglio del 1789 quando cadde la Bastiglia. E quando in poche settimane c'è un'autentica esplosione di giornali. Se ne stampano a centinaia. A volte in realtà la tipografia nemmeno la vedono: sono pazientemente scritti a mano. Nel giro di qualche mese raccontano gli storici se ne contano quattromila. Ovvio, nella stragrande maggioranza sono semplici testimonianze di libertà. Opinioni gridate. E si capisce: dopo secoli e secoli di assolutismo sapere di potere esprimere le proprio idee senza la paura di arresti e persecuzioni deve essere stato una specie di liberatoria e felicissima ubriacatura di massa. Ma c'è forse qualche rassomiglianza con l'Italia degli anni Novanta o del decennio successivo? Onestamente sembrerebbe di no. E allora, perché improvvisamente l'Italia appare affamata di opinioni? Perché la caduta dei muri e delle ideologie ha aperto un grande vuoto nelle coscienze (e nelle opinioni)? Sia come sia, rifletterci significa mettere sotto la lente alcuni cambiamenti del mestiere del giornalista che non sono proprio secondari rispetto al suo ruolo storico. E lascerei perdere la demagogica allusione al giornalismo come cane da guardia del potere. Definizione non a caso americana, dove il giornalismo è interprete dello spirito della comunità e quindi, per definizione, controllore dei governanti piccoli e grandi . Insomma, niente a che fare con la storia del giornalismo italiano e nemmeno, per la verità, di quello europeo, dove il giornalismo nasce come espressione delle élite e quindi del potere. Un sociologo negli anni Ottanta (accidenti! Non mi viene in mente il nome!) aveva trovato una definizione suggestiva quanto azzeccata del modello di informazione europeo: giornalismo partigiano. Nel senso di giornalismo di parte, schierato, fazioso. Il nostro non immaginava che il bello doveva ancora venire. Che tutti i mass media avrebbero da lì a qualche anno sterzato decisamente verso un giornalismo ancora più partigiano, dove più che i lettori si cercavano elettori, con la differenza rispetto al passato, che l'obiettivo ora veniva esibito, non più camuffato, edulcorato dal pudore di una sedicente obiettività. Ma c'è anche un altro aspetto, più tecnico, che dovrebbe interessarci per un'analisi storico-professionale. Una delle regole classiche del mestiere del giornalista è la selezione di fatti che per la loro intrinseca natura hanno la capacità di colpire l'attenzione del maggior numero di persone. Di conseguenza il cronista più bravo era (è) quello che sapeva trovare la notizia-scoop, così come il caporedattore più bravo era (è) quello che riusciva ad assemblare la prima pagina più interessante (nel senso di suscitare il maggiore interesse). Ma come funziona questa regola con l'opinionismo? Come si è trasformata? Qual è la logica di scelta applicata a una scala di opinioni? Come si valuta rispetto alle altre “notizie”? Attraverso uno spirito di appartenenza o se si preferisce attraverso la valutazione dei “danni” che provoca ai sostenitori delle opinioni avverse? La domanda non è banale. E comunque sottolinea un approccio radicalmente diverso rispetto al modello classico. E poi, come influisce la logica dell'appartenenza nella valutazione giornalistica dei fatti? Qual è il suo impatto nella narrazione della realtà? Domande e ancora domande. Che sul viale del tramonto dell'opinionismo forse sarebbe il caso di cominciare a porsi. Ridurrebbe anche il tasso di retorica che troppo spesso avvolge il concetto di libertà di informazione.
       
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