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Ordine, o si cambia o si chiude. La proposta Bonini-Rea
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Un solo albo, un solo elenco: quello dei giornalisti abilitati alla professione a cui si potrà accedere attraverso un esame di idoneità con una laurea triennale e un corso di formazione specifica di almeno 12 mesi. I professionisti passerebbero automaticamente nel nuovo albo. Potrebbero accedere all’esame i pubblicisti che non siano iscritti ad altri ordini professionale e che abbiano seguito un corso di formazione specifico che l’ Ordine predisporrà d’ intesa con il Miur e le università. All’esame potrebbero accedere senza seguire il corso, i pubblicisti che, al momento dell’entrata in vigore della legge, abbiano almeno 15 anni di anzianità e che dimostrino di aver svolto attività giornalistica non occasionale negli ultimi 3 anni. I pubblicisti che non intendessero transitare nell’elenco dei giornalisti abilitati alla professione, o che non superassero l’ esame, resterebbero iscritti in un Elenco speciale dei Pubblicisti che non procederà ad altre iscrizioni fino a suo naturale esaurimento. Sono le linee portanti di un documento di indirizzo per la Riforma dell’Ordine dei giornalisti (che è pubblicata su lsdi.it) messa a punto dai consiglieri di ‘’Liberiamo l’ informazione’’ in vista della riunione del Consiglio nazionale dell’Ordine, convocato per il 21-23 gennaio e dedicato alla Riforma. La proposta prevede la distinzione fra l’abilitazione alla professione e il suo effettivo svolgimento, come avviene per altri Ordini; la separazione fra la sfera della costruzione dei saperi professionali, della formazione, della deontologia, della produzione di cultura da quella dell’esercizio concreto della professione e del mercato del lavoro, che è il terreno della dialettica editori/sindacato. E’ chiaro che gli editori continuerebbero ad avere nelle loro mani la gestione dell’accesso: ma l’accesso al lavoro non alla professione. D’ altra parte sono loro che assumono, sono loro i ‘’datori di lavoro’’, sono loro che fanno ‘’il mercato’’. Ma non potranno più essere loro a stabilire chi potrà essere giornalista e chi no. Per le loro redazioni dovranno scegliere fra giornalisti già abilitati, fra chi può fare del giornalismo professionale perché ha ricevuto una formazione specifica, e di alto livello, come richiede il processo di innovazione in atto nel settore. Continuerebbero ovviamente ad incidere: ma – come si diceva - non tanto sulla professione in sé, quanto sul mercato del lavoro giornalistico. Mentre il sindacato continuerà ad esercitare il suo ruolo di pressione conflittuale vigile e creativa a difesa dei giornalisti e del buon giornalismo (il Contratto di lavoro è in fondo, se ci pensate, un concentrato delle principali linee guida della qualità dell’informazione giornalistica). Il praticantato, ora in via di estinzione per il blocco del turnover nel campo del lavoro dipendente, verrebbe tolto dalle loro mani e trasferito formalmente, ufficialmente (ufficiosamente una gran parte del processo passa già ora attraverso altre strade, come i riconoscimenti d’ufficio, il praticantato dei free lance, le scuole) all’esterno delle redazioni e affidato a delle Agenzie di formazione (le università, le Scuole e l’Ordine stesso, ovviamente), che controllerebbero anche l’impostazione della pratica redazionale da svolgere nell’ambito del corso di formazione specifica. Ovviamente c’è il problema di mettere a punto una struttura di formazione di alto livello, con la creazione di Corsi di laurea in giornalismo. E comunque la proposta contempla già (in attesa che anche l'Italia si adegui) l'accesso all'esame di idoneità di chi ha una laurea/master in giornalismo conseguito presso università all'estero di riconosciuto prestigio e riconosciute dall'Ordine. Il precariato Il fenomeno del precariato ha delle radici profonde nelle nuove forme di produzione, soprattutto intellettuale, e quindi non è affare solo del giornalismo italiano. Ma qui da noi la questione viene accentuata anche dalla attuale configurazione dell’Ordine. Il pubblicismo viene infatti utilizzato come un’altra via di accesso al giornalismo professionale e quindi il tesserino di pubblicista può diventare un miraggio da far balenare come elemento di ‘’salario aggiuntivo’’ e di ricatto, per abbassare in maniera forzosa i compensi delle collaborazione giornalistiche. Senza l’elenco dei pubblicisti – senza la possibilità di far lavorare quasi gratis per almeno 2 anni gli aspiranti giornalisti che non riescono ad avere un contratto di lavoro dipendente - gli editori sarebbero costretti a pescare in quel bacino, quello dei giornalisti abilitati, perché davvero in quel caso l’esercizio abusivo della professione smetterebbe di essere un reato impossibile ma diventerebbe un reato concretamente identificabile. Ed editori e vertici giornalistici potrebbero essere accusati di concorso nel reato o addirittura di istigazione. Nella proposta d’altronde si prevede esplicitamente che ‘’l’ iscrizione all’Albo è condizione vincolante per l’esercizio del giornalismo professionale, in qualsiasi forma contrattuale esso venga esercitato’’. Giornalista sarà solo chi lo fa fare a chi non lo è? Marco Volpati, consigliere del Cnog, replicando ad un intervento in cui si auspicava per la Riforma dell’Ordine la scelta della linea ‘’un solo Albo/un solo elenco’’ e spiegando di condividere la diagnosi ma non la terapia, osservava: «Politologi, economisti, letterati, artisti, medici, avvocati, esperti di varie scienze e tecniche (dai motori allo sport, dalla moda al tempo libero alla salute e fitness e così via), esponenti e osservatori di quanto accade nelle comunità locali, continueranno a scrivere sui giornali, parteciperanno a trasmissioni radio e tv, e interverranno in testate web. Potranno tranquillamente farlo senza doversi iscrivere all’Ordine. E lo faranno sempre di più: giornali, tv, radio, siti web, uffici stampa avranno contenuti di cui saranno autori non giornalisti (sconosciuti all’Ordine, ovviamente). Giornalisti saranno i direttori e pochi tecnici dell’edizione, impaginazione, trattamento delle notizie e dei commenti sui vari media: quelli che avranno affrontato il percorso di abilitazione». Ma è proprio quello che succede già, dovunque. Molti di noi non se ne sono accorti, ma il cambiamento va proprio in questa direzione: il giornalismo professionale sarà sempre meno ricerca e stesura delle notizie (che stanno diventando una commodity, un bene talmente diffuso da avere un valore sempre più ridotto) e sempre più progettazione grafico-editoriale e tecnologica, da un lato, e cura, organizzazione, controllo e verifica di contenuti prodotti altrove, dall’altro. Tutte funzioni che richiedono, come si può immaginare, una cultura tecnica e professionale altissima. Non è una novità: c’è sempre più informazione in giro, anche da parte di chi giornalista non è e non vuole neanche diventarlo. Enti, associazioni, politica, terzo settore, volontariato. Tutto quello che alimenta i social media, Twitter in primis: un volume enorme di unità informative. Poche notizie vere, molti commenti, molta ‘fuffa’: in ogni caso, si calcola, vengono pubblicati online ogni giorno 2 milioni di post, 400 milioni di tweet e 864.000 ore di video (e inviati 294 miliardi di email) che costruiscono il discorso pubblico. «Ma, a quel punto – dice Volpati - giornalista non sarà più “chi lo fa”, come tutti vorremmo che avvenisse, ma “chi lo fa fare agli altri”, chi consente a non giornalisti di produrre i contenuti dell’informazione. Senza possibilità di intervento sindacale, formativo, ordinamentale e anche deontologico». Il compito principale del giornalismo professionale sarà sempre di più proprio quello: filtrare, raccogliere, organizzare, dare un senso al ‘’giornalismo diffuso’’ e farne del ‘’buon giornalismo’’. Come? L’egemonia Valorizzando al massimo il bagaglio di saperi su cui il nuovo Ordine riformato dovrebbe vigilare, ma in maniera creativa, producendo ricerche, analisi, cultura deontologica. In modo da assicurare quell’elemento cruciale che è l’egemonia del discorso giornalistico. Egemonia che si traduce nella prevalenza, all’interno dell’industria dell’informazione, dei valori di fondo che il giornalismo ha accumulato in decenni di attività e storie di eccellenza giornalistica, anche sul piano etico. Perché il giornalismo italiano è stato anche questo, non solo cattiva moneta. E poi, non è affatto ‘’ovvio’’, come sostiene Volpati, «che quasi nessuno si imbarcherà in un percorso così complicato con il solo scopo di acquisire una “abilitazione al giornalismo”, che poi non utilizzerà». Pensiamo che potrebbe essere vero il contrario: perché dei saperi giornalistici di alto livello darebbero un grosso valore aggiunto anche a persone destinate - per voglia o per caso - a fare altre attività professionali. Un ‘’mercato’’ di 48.000 attivi Quanto alle osservazioni di Lino Zaccaria - secondo cui, fra l’ altro, la conclusione che la differenziazione (fra professionisti e pubblicisti) è ormai superata nei fatti, visto che gli iscritti alla gestione separata dell’Inpgi sono più dei professionisti, è errato e fuorviante, - ritorniamo a quanto si diceva prima: è il regime del doppio elenco a favorire gli editori nel processo di progressivo outsourcing della produzione giornalistica al di fuori delle pareti delle redazioni, in zone dove è più facile imporre livelli di compenso bassissimi. E’ lì che bisogna agire. L’equo compenso? Certo è uno degli strumenti. Ma probabilmente non può essere il solo. E poi la nostra proposta, sul modello francese, prevede degli elenchi (a livello regionale) di “collaboratori giornalistici occasionali”, con uno sbarramento che impedirà che attraverso questa finestra venga fatto rientrare ciò che facciamo uscire dalla porta. I circa 48.000 attivi iscritti all’Inpgi delineano comunque un mercato giornalistico analogo a quello di altri Paesi (Francia, Regno Unito), ma profondamente squilibrato sul piano dei diritti e del reddito. In ogni caso nel bacino del giornalismo in Italia c’è anche tutto l’ampio settore degli uffici stampa che in altri Paesi (Usa ad esempio) fanno capo invece al mondo della Comunicazione e delle Relazioni pubbliche. La chiave è probabilmente una diversa contrattazione che porti a un riequilibrio dei redditi e dei diritti fra lavoro dipendente e lavoro autonomo/parasubordinato: 62.459 euro la retribuzione media dei dipendenti; 11.278 quella media di autonomi e parasubordinati, in cui si trovano circa 20.000 pubblicisti che di fatto svolgono lavoro professionale, ma con un reddito assolutamente iniquo. Esclusività e prevalenza Un livello di reddito che impone necessariamente una pluralità di occupazioni ed impedisce l’esercizio di quella esclusività che la legge attuale impone al professionista. Un altro ostacolo che bisogna assolutamente cancellare. Il regolamento sul cosiddetto ‘’ricongiungimento’’ ha riconosciuto per fortuna il criterio della prevalenza (superando quello dell’esclusività come prevedeva il vecchio testo). E gli attuali pubblicisti? Lorenzo Sandiford, un free lance fiorentino, pone in un commento due temi di carattere generale che esemplificano probabilmente altre questioni/obiezioni che potrebbero essere poste. Dice Lorenzo: «Non vorrei correre rischi inutili e non vorrei dover rinunciare al precario equilibrio fra diversi tipi di attività che mi consente di campare, e credo di averne diritto, che tutti ne abbiano diritto. Sono pienamente d'accordo con la proposta qui avanzata, ma solo a due condizioni: a) le nuove regole di accesso valgano per i nuovi, cioè da ora in poi, mentre a chi è ormai avanti con gli anni, in situazioni lavorative in qualche modo consolidate o in equilibrio, si lasci la possibilità di esaurire il suo percorso alla vecchia maniera b) l'essere abilitato a fare il giornalista nel nuovo albo unico e anche il fare parte dei vecchi doppi albi in esaurimento non dovrebbe comportare l'esclusività della professione giornalistica. Si deve poter lasciare svolgere a chi è giornalista abilitato anche altre attività di comunicazione (e non solo) limitrofe, purché non in grave conflitto d'interessi con le altre mansioni che si svolgono’’. Ecco, per la questione a) la proposta darebbe a chi ha meno di 15 anni di iscrizione all’Ordine ma non ha voglia o interesse a passare nel nuovo Albo sottoponendosi ad un esame la facoltà di restare nel vecchio elenco. E i ‘’vecchi’’ pubblicisti conserverebbero una loro rappresentanza nel nuovo Cnog eleggendo una parte dei consiglieri (la proposta è di 10 su 60). Per quanto riguarda il punto b) il problema verrebbe superato nel caso la Riforma prevedesse, come afferma l’art. 2 della bozza di nuova normativa: ‘’l’iscrizione all’ albo è condizione vincolante per l’ esercizio del giornalismo professionale, in qualsiasi forma contrattuale esso venga esercitato‘’. Anche in questo caso le questioni di carattere contrattuale verrebbero lasciate al campo dei rapporti economico/sindacali. Conclusione L’effetto sarebbe a nostro avviso una forte semplificazione del quadro ordinistico ma nell’ambito di una forte valorizzazione della qualità della formazione professionale per un giornalismo che sia adeguato alle sfide dell’innovazione. Ne citiamo solo una. Quella del data journalism, il giornalismo attraverso l’analisi di grandi quantità di dati. “Sarete sorpresi dai giornalisti che sanno programmare”, assicura il Nieman Lab, uno dei maggiori centri di analisi dell’innovazione in campo giornalistico. “L’abilità di raccontare storie con i dati – racconta Luigi Caputo su Piazzadigitale.corriere.it/ - non è solo un modo diverso di fare giornalismo. È una capacità che richiede la conoscenza di informatica, codici, database: competenze lontane dal lavoro giornalistico classico”. Solo una formazione di alto livello le potrebbe fornire. Ma bisogna muoversi, fare presto. Insomma è un momento cruciale: davvero ‘’o si cambia o si chiude’’. Carlo Bonini Pino Rea