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Ordine/ In 17 vicepresidenti perchè nulla cambi davvero
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di Oreste Pivetta Da molti giorni compare in apertura nel sito dell’Ordine nazionale dei giornalisti un documento sottoscritto dai vicepresidenti di diciassette consigli regionali, documento che sarebbe stato bello leggere insieme con il testo sottoscritto da otto presidenti regionali (Lombardia, Lazio, Liguria, Puglia, Toscana, Friuli Venezia Giulia, Marche e Sicilia) a sostegno di una rapida riscrittura delle norme “riducendo innanzitutto l’attuale, esorbitante e costoso numero di consiglieri nazionali (144 componenti a cui si sommano i 12 del Consiglio di disciplina) e riequilibrando il rapporto tra professionisti e pubblicisti (due terzi professionisti e un terzo pubblicisti)”. Anche il tema dell’intervento dei vicepresidenti riguarda l’eventuale riforma dell’Ordine: eventuale ancora, perché è certo per il momento solo il rinvio delle elezioni e quindi la proroga in vita fino al 31 dicembre degli attuali consigli regionali e nazionale. Il documento dei vicepresidenti si apre con una perentoria affermazione: “La riforma dell’Ordine dei giornalisti è necessaria”. Non trascuro di riferire le due righe successive: “Ma il Parlamento non può farsi ingannare da slogan propagandistici che con la suggestione dei suoni cercano di nascondere la realtà”. Forse si allude a un’orchestra all’opera. Ma i giornalisti in genere non sanno andare oltre la prosa. Poco più avanti, dopo brevi cenni alla crisi, al ruolo dei pubblicisti nel sostegno del sistema dell’editoria e dopo una ammissione assai importante e condivisibile, “La differenza tra professionisti e pubblicisti non esiste più”, si legge una affermazione almeno inquietante, secondo la quale i pubblicisti medesimi sarebbero “colleghi invisibili, a volte anche dal punto di vista economico, che un’élite di giornalisti garantiti punta a penalizzare con l’obiettivo di impadronirsi dell’Ordine”. Ora qui si dipingono i giornalisti professionisti come una élite di garantiti (il che per chi legga appena appena i titoli delle cronache sindacali ricchi di espressioni come mobilità, cassa integrazione, contratti di solidarietà e... fallimenti dovrebbe “suonare” come una favola), e come assatanati bolscevichi alla presa del Palazzo d’Inverno. A sostegno del denunciato sopruso si intima al Parlamento di non approvare norme “che penalizzerebbero i 75 mila pubblicisti italiani”. Sarebbe utile di tanto in tanto rileggere il testo della legge istitutiva dell’Ordine (la legge 63 del 1969) e magari riflettere sulla sua storia e sul contesto, sarebbe utile per quanto difficile considerare davvero non lasciandosi suggestionare dai suoni la realtà di quei presunti 75 mila (senza dimenticare quanto ad esempio impone la legge a proposito di inattività e quindi a proposito di cancellazione dagli elenchi per professionisti e pubblicisti, norme di frequente disattese dal Consiglio nazionale, che ha ormai assunto la linea di rimandare al mittente senza giustificazione giuridica le pratiche di cancellazione, decise dai consigli regionali in sede di revisione degli elenchi, come prescrive la legge, e accolte peraltro dalla commissione ricorsi del Consiglio stesso). Sarebbe soprattutto utile ragionare, tenendo conto delle novità che riguardano (mi verrebbe voglia di scrivere: che affliggono) il mondo della informazione e della comunicazione in Italia, su come unire le forze per garantire la sopravvivenza e magari il futuro di una categoria intera di lavoratori, per immaginare una crescita dell’editoria in Italia, per difendere gli interessi del cittadino lettore, eccetera eccetera. Invece si mette in scena il conflitto tra pubblicisti e professionisti, che esiste solo in qualche mente contorta, ma non esiste nella realtà della legge e della produzione, perché nella realtà, cioè nella concretezza del mestiere, non esiste contrasto tra chi esercita la stessa professione e non saranno certo sigle diverse o elenchi diversi o tesserini diversi (che rimandano a una storia di mezzo secolo fa) a determinare questo contrasto. In Consiglio nazionale mi è capitato più di una volta di ascoltare un giovane collega, corrispondente di una testata nazionale, difendere il suo status di pubblicista, raccontando la mole di lavoro quotidiana, ovviamente pessimamente retribuita. Vorrei dire al giovane collega che la sua condizione dimostra proprio quanto superata sia, se di mezzo c’è il lavoro vero, la distinzione tra pubblicismo e professionismo e quanto nel suo caso sia vera la definizione che “giornalista è chi lo fa”. E quanto – aggiungerei – lo danneggiano coloro che usano il tesserino di giornalista come una medaglia. Rispetto allo sfruttamento di cui è vittima, gli chiederei se gli possa giovare mantenere in piedi un baraccone infernale dentro il quale si accomoda anche chi non ne avrebbe alcun diritto e nel quale, nella nebbia, si intrecciano tutti gli abusi. Quel giovane collega ha ragione da vendere quando rivendica con orgoglio il valore del proprio lavoro, ma non è il caso che si faccia irretire da chi con quel lavoro non ha niente o pochissimo a che fare. La questione economica è drammatica, con la conseguenza di prevaricazioni e ricatti, ma s’affronta davvero declinando una offensiva contro coloro che si definiscono (più di una volta) “l’élite dei giornalisti garantiti”? Accertata questa situazione di crisi, esistono ancora giornalisti garantiti? In quale riserve indiane? Alla Rai, forse, unica riserva indiana sopravvissuta, neppure più al Corriere o al Sole. Il documento dei diciassette vicepresidenti considera anche il punto relativo al numero dei consiglieri nazionali (se si votasse con le regole in atto ci si avvicinerebbe a quota centosessanta), come si deduce da alcune anticipazioni della riforma: trentasei? quarantacinque? Naturalmente – sostengono i diciassette vicepresidenti – troppo pochi, se si vuole garantire la rappresentanza di pubblicisti e professionisti e di tutte le regioni, Valle d’Aosta, Umbria, Marche, Molise, Basilicata eccetera eccetera... Mi chiedo se a questo punto della crisi, che è una crisi nazionale, non si debba coltivare una visione nazionale, alla quale si debbano ispirare le linee guida della iniziativa politica e culturale dell’Ordine: definizione delle figure professionali, deontologia, formazione, scuole, accessi non sono questioni nazionali per eccellenza? Una visione nazionale che provi a rispondere al quesito cardine alla base della nostra professione: come si fa in Italia una informazione libera e di qualità... La discussione naturalmente continua. Mi chiedo se un’altra volta non si confermi la vecchia aspirazione molto italiana a lasciar le cose come stanno, dopo aver sventolato la bandiera del rinnovamento. Ma allora viene da sospettare la persistenza di interessi poco nobili, che per nulla coincidono con quelli di quel giovane collega che vorrebbe solo poter praticare un buon giornalismo, dignitosamente retribuito.