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Giornalismo morto? Macché, sta solo cambiando pelle


di Michele Urbano Tanto per mettere le mani avanti, dico subito che non mi è ancora ben chiaro cos'è lo smart working, ma di sicuro è l'ultima prova di quanta confusione regni sotto i cieli del giornalismo italiano. Che parte da lontano. Anni Ottanta. Dopo il fenomeno delle radio private. C'è il fenomeno delle Tv commerciali. Fenomeni travolgenti che hanno due interlocutori principali. Le aziende (ossia la pubblicità) e la politica (ossia il consenso). Che impongono una nuova figura di specialista: l'addetto stampa, il comunicatore.michele in manifestazione La loro è un'avanzata travolgente. Con una conclusione per certi aspetti paradossale in tempi di crisi: se c'è una professione che negli ultimi cinquant'anni, in un formidabile gioco moltiplicatore, ha ingrossato il suo esercito è proprio quella che all'origine aveva al centro il giornalismo. Negli anni '60 quanti erano gli addetti stampa? Pochissimi. Nel giro di nemmeno 20 anni i "comunicatori" erano diventati un'armata, e soprattutto all'inizio, la maggioranza proveniva dal mondo del giornalismo. Si inseriscono rapidamente nella pubblica amministrazione, nelle grandi aziende, nel mondo della consulenza. C'è un piccolo problema: per molti di loro, l'unico modo per recuperare un'identità professionale era (anzi: è) tentare la carta del pubblicismo. Il tutto comunque, nell'indifferenza colpevole dell'Ordine. Fermo a una legge del 1963. E, diciamolo, nell'indifferenza altrettanto colpevole di una politica che aveva sempre altro da fare. Già, indifferenza, perché in un mondo serio (in un Ordine serio) si sarebbe fatto di tutto per regolamentare l'allargamento della "famiglia" a maggior tutela (deontologica) degli interessati e per una maggiore trasparenza dei ruoli professionali. E magari anche per garantire qualche entrata in più all'Inpgi. In questi anni per sostenere l'urgenza di una riforma radicale di uno strumento nato per garantire l'autonomia del giudizio deontologico ma incapace di riformarsi per stare al passo del cambiamento spinto dell'innovazione tecnologica, facevo notare che non esisteva professione con cinque diversi modi per accedervi! Ricordo: praticantato, praticantato d'ufficio, scuola di giornalismo, esamino per l'albo dei pubblicisti, elenco speciale. Vogliamo chiamarla crisi d'identità? Chiamiamola come volete, ma è chiaro che un professionista dalle origini incerte non depone a favore della sua competenza. E che non aver deciso "chi è" il giornalista nell'era della comunicazione globale, quali ruoli e funzioni può avere, esattamente come un avvocato o un ingegnere, decennio dopo decennio, ha portato l'Ordine sul viale dell'obsolescenza. Cosa c'entra tutto questo con lo smart working? In generale niente, nel particolare nostro mondo tantissimo, perché vive con le stesse ambiguità - o se si preferisce: incertezze - della professione. Per un operatore dell'anagrafe del Comune lo smart working ha una lettura abbastanza univoca nella definizione di diritti, doveri, procedure, orari. Nel nostro mondo, invece, è pratica che si presta a diverse letture. Positive, negative e magari... così, così. L'argomento che lo smart working è giusto e bello a condizione che sia desiderato da entrambi le parti (editore versus giornalista) è abbastanza fragile. Innanzitutto perché non sono certi i suoi effetti sulla qualità del lavoro e quindi sullo status professionale dell'interessato. Mi spiego. Per una serie di ragioni personali, a vostra scelta, io giornalista oggi sono ben felice di starmene a casa a lavorare. E quindi se l'editore mi offre questa opportunità la prendo al volo. Bene. Ma quale sarà il lavoro che farò a casa? Risposta numero uno: esattamente quello di prima, attività redazionale (editing, titolazione, impaginazione). Perfetto? Mica tanto. Domanda: Di che tipo di rapporto si parla? Una nuova forma di cottimo? E gli orari di lavoro? La reperibilità? E soprattutto in caso di conflitto cosa succede? Il mio contratto rimane lo stesso? Può essere impugnato? Risposta numero due: facevo il cronista e quindi se voglio provare le comodità dello smart working, devo per forza modificare il mio ruolo professionale. Di poco o di tanto in prospettiva non so, ma il cambiamento, ne sono consapevole, è inevitabile. Anche qui, bene. Ma che margini di autonomia ho per accettare o rifiutare i cambiamenti che mi verranno proposti? Più in generale: che garanzie ho per il mio futuro professionale ? Potrò tornare a fare il cronista come prima? Non c'è il rischio che lo smart working diventi una strada senza ritorno, verso la dequalificazione professionale? Tutte domande che hanno una doppia valenza: da una parte quella dei diritti sindacali, dall'altra quella del valore professionale. E qui torno all'inizio. Con lo smart working come ultima tappa - e secondo me nemmeno tra le più significative - di un processo di radicale trasformazione della professione causato da un rapidissimo processo di innovazione tecnologica. Che prosegue a velocità ultrasonica. Cosa si può fare oggi con un telefonino? Chiedere a un ragazzino per saperne di più e a Francesco Facchini per una puntuale lezione su tutte le opportunità professionali (https://fondazione-paolomurialdi.voxmail.it/user/wjji3g3/show/qnglmc?_t=58f580da). (NdR: lo trovate anche su questo nostro sito…) Mi scuso per la pedanteria, ma ricordo che Gutenberg mise in vendita le prime 180 Bibbie da lui stampate nel 1455. Per arrivare al primo giornale radio in Italia (che si chiamava “giornale parlato”) bisogna aspettare 474 anni: il 1929. Passarono appena 27 anni invece per il primo telegiornale Rai: 1956. E dopo una trentina d’anni ecco internet e la connessione globale. Insomma, la faccio breve, dopo 500 anni di incontrastato dominio, il regno della carta stampata si è ridotto a un piccolo principato, nemmeno poi tanto nobile. E con il regno sono caduti anche i suoi capisaldi cultural-organizzativi come la redazione. Che era il centro propulsivo del “regno”. E’ qui che si faceva il giornale: si selezionavano le notizie e con esse si orientava l’opinione pubblica di riferimento. Non solo, qui si preparavano e modellavano i futuri redattori-dirigenti del giornale. Non è un caso che nella legge istitutiva dell’Ordine si ipotizzavano solo due canali di accesso: l’elenco professionisti a cui si accedeva dopo 18 mesi di praticantato in redazione, e quello dei pubblicisti che solitamente erano specialisti che scrivevano della loro materia. Insomma, la “scuola” era la redazione, punto. Che già ieri, in realtà, era messa male, e che il Covid e quindi lo smart working (vedi l’interessante ricerca di Alg http://www.alg.it/alg1/?p=16511 ) non ha certo contribuito a migliorarne la salute. Utile ricordare che la crisi della centralità della redazione (con i suoi drammatici effetti pesa anche sulla coscienza sindacale dei giornalisti) non è fenomeno recente. Per la crisi le redazioni cominciano a sgonfiarsi già negli anni Settanta. Certo si alleggerivano dei redattori contrattualizzati ma si allargavano nella truppa sempre più numerosa di collaboratori freelance. Da questo punto di vista lo smart working (o vogliamo chiamarlo lavoro agile anche se non è chiaro “agile” per chi?) se sorvoliamo sull’amara ironia che la definizione suscita, è prassi consolidata da almeno mezzo secolo in tutti i gruppi editoriali italiani, piccoli, medi e grandi. Questo, ahinoi, è il quadro di una crisi d’identità professionale che temo continuerà a produrre cambiamenti senza fare sconti a nessuno perché trainata da una innovazione tecnologica che non conosce né confini e nemmeno la pietà. Pessimismo? Non proprio. Credo, semplicemente, che la professione che ho praticato per 34 anni sia destinata scomparire. Per molti aspetti già non esiste più. Ma che questo non significa affatto che il giornalismo sia morto. Paradossalmente, anzi, rispetto a ieri vedo molto più canali informativi oggi. E vedo anche più ruoli. Che possono trasformarsi in altrettante opportunità professionali. Certo, ovviamente impongono l’apprendimento di nuove tecniche… che in realtà fanno più paura a un settantenne come me che a una quindicenne come mia nipote. Ovvio, con problemi nuovi, e anche pericoli nuovi. Ad esempio quello di una omologazione dei modelli culturali dovuto alla nascita di potentissimi gruppi internazionali. Ma questo è il progresso. Un cammino faticoso. E di lotte.
       
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