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Formazione, davvero ci teniamo al "buon giornalismo"?
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di Vittorio Roidi La formazione del giornalista resta una questione centrale. Lo aveva visto Guido Gonella, cinquanta anni fa. Lo è diventato ancora più oggi, di fronte alle aumentate difficoltà e alle sfide sempre più impegnative. L’idea del legislatore fu quella che il giornalismo si doveva imparare sul campo, cioè nelle redazioni. Così nel 1963 il compito venne affidato agli editori. Anche per altre attività l’impostazione è simile: il medico si addestra in corsia, l’avvocato fa pratica in uno studio, ma in tutti questi casi è indispensabile, prima, un corso di studi universitario. Quanto a noi, il legislatore ritenne invece che la pratica dovesse superare tutto il resto, non chiese neppure la laurea come livello culturale obbligatorio. Più avanti, l’Ordine capì che il sistema faceva acqua e che era stato fatto solo un regalo agli editori, i quali non avevano voglia di formare i professionisti, ma solo di sfruttarli. Fu realizzato il progetto delle scuole (anche la legge immaginava una Scuola nazionale) e vennero autorizzati (col contagocce) corsi di formazione biennali affidati a strutture appoggiate agli atenei, gestite con criteri bilanciati (cultura+addestramento) preventivamente autorizzate e sorvegliate, nelle quali l’allievo svolge sia l’addestramento pratico sia quello teorico (diritto, economia, etica ecc). In più l’Ordine (su input della stessa Fnsi) ha via via allargato gli argini dei praticantati d’ufficio, per rendere giustizia a coloro che il mestiere lo facevano ma senza aveva avuto la possibilità di svolgere un vero praticantato (spesso per colpa di un editore che gli e lo aveva negato). Quando negli Atenei si affermarono i master, alcune università proposero anche una simile soluzione, che però all’interno dell’Ordine fu vista con (giusto) sospetto, essendo obbiettivamente difficile che, nell’arco di un biennio, si svolgessero 22-23 esami accanto alle 1000 (!) ore che erano state ritenute obbligatorie per la pratica (stampa, radio, tv, web). Ora si sta facendo marcia indietro sulle scuole. Qualche anno fa perfino alla Facoltà di Sociologia della Sapienza guidata da Mario Morcellini venne negato il benestare, nonostante avesse ottenuto un finanziamento di 250 mila euro dalla Regione Lazio. Molte scuole sono state chiuse, alcune correttamente. Nessuna ne è stata istituita. Mezza Italia è priva di accessi seri alla professione. Che fare? L’impostazione di base resta corretta, cioè il praticantato. Ma l’unica àncora è costituita dalle università, che del resto in tutto il mondo occidentale (pur senza l’obbligo dell’Ordine e dell’esame di stato) preparano i professionisti dell’informazione. Naturalmente ci vogliono regole rigorose, fissate ancora dall’Ordine. E soldi, perché senza telecamere e sistemi editoriali si preparano solo finti professionisti. La collaborazione con i privati ha già dato qualche buon esempio. Temo che non ci sia volontà alcuna di rilanciare il problema. Ordine e Fnsi pensano infatti di frenare la nascita di nuovi professionisti, mentre ovunque vincono il precariato e la manovalanza. E si fa finta di non vedere che alcune centinaia di pseudo professionisti (istruiti con corsi di poche ore) vengono fuori ogni anno dal cilindro magico del riconoscimento d’ufficio, che i Consigli regionali rilasciano sulla base di criteri a dir poco diversi. Occorre un piano, studiato insieme con il Sindacato, per rendere i professionisti idonei alle nuove scommesse e per dare credibilità alla professione. Cioè per difenderla. Non mi pare che qualcuno stia aprendo un dibattito, né ai vertici, né alla base della categoria. Nessuno prende iniziative. La buona professione? Molti in realtà non la vogliono.