Redazione
Visite: 418
Addio, Vanja Ferretti. Collega, compagna, amica
Redazione
Visite: 418
di Oreste Pivetta Vanja Ferretti ci ha lasciati: è morta questa mattina in un ospedale di Milano, la sua città, dove era nata settant’anni fa (i settant’anni li avrebbe compiuti proprio domani, 27 novembre). Era una giornalista e una giornalista di grande valore. Lo era diventata nel 1973, ad appena ventiquattro anni. Aveva cominciato nella redazione milanese dell’Unità, ancora l’organo del Partito comunista. Quando arrivai anch’io all’Unità, nel ‘72/’73, lei era già un’autorevole redattrice che si occupava di politica, agli “interni”, con la stessa passione che l’aveva animata negli anni dell’università, alla Statale (Scienze politiche), e nell’attività di partito, come si usava a quei tempi, nelle sezioni del suo quartiere, tra viale Fulvio Testi (dove abitava, quasi davanti all’Unità) e Niguarda. Brava, rigorosa, preparata. Soprattutto autorevole nei confronti di quella compagnia di giovani, poco più giovani di lei, che andava via via in quei tempi popolando la redazione, capo redattore Augusto Fasola, suoi vice Quinto Bonazzola (che era stato giovanissimo dirigente con Curiel del Fronte della gioventù) e Sergio Banali, detto (da Vanja stessa) “Tato”, direttore un politico, e un intellettuale autentico come Aldo Tortorella. Vanja era brava e autorevole, perché era una donna colta, con la propria indipendenza di giudizio, curiosa, attenta alle dinamiche della società e ai cambiamenti del costume, accanita lettrice (dei classici, come era obbligo, i grandi romanzi dell’Ottocento, ma anche dei contemporanei, che si chiamavano Elsa Morante o Paolo Volponi), “consumatrice” di musica e della musica dei nostri giorni. Le piaceva moltissimo Bruce Springsteen: ammirava il suono e il ritmo delle sue canzoni, ma ne aveva perfettamente inteso la vena “operaia”, quella capacità di rappresentare l’America delle periferie, dei margini, del dissenso.[caption id="attachment_9164" align="alignleft" width="150"] Vanja in delegazione in Unione Sovietica, brindando rigorosamente con aranciata...[/caption] Mi verrebbe voglia di riannodare i fili del dibattito politico d’allora, quello che il giornale doveva rappresentare e quello che si replicava all’interno del giornale, nelle assemblee di redazione, nelle riunioni della cellula del Pci (Vanja ne era stata segretaria), anche nei corridoi. Qualcosa di irripetibile, per il cuore e l’intelligenza dei tanti, quando la politica era viva ed era costruzione quotidiana, tra contrasti e divisioni, a volte durissimi, anche tra di noi, redattori dell’Unità. Era la stagione delle stragi (dopo piazza Fontana, l’Italicus e piazza della Loggia nel 1974, alla stazione di Bologna nel 1980, il rapido 904 all’antivigilia di Natale del 1984). Ma anche la stagione di grandi novità politiche e di grandi speranze, fino almeno alla morte di Aldo Moro. Vanja in quel periodo lasciò la redazione di Milano, andò a Roma, nell’ufficio del caporedattore, e accettò poi la direzione della sede di Bologna, quando il giornale decise un forte investimento nella cronaca emiliano-romagnola. Chiusa quell’esperienza, alla fine degli anni Ottanta, Vanja decise di lasciare l’Unità. Era una giornalista e voleva sperimentare la professione altrove. Non credo vi fossero motivi polemici nella sua scelta. Piuttosto a determinarla erano stati i sintomi della crisi che avrebbe condotta alla prima cassa integrazione e ai tagli, assai modesti, nell’organico. Vanja cominciò così la sua avventura a Italia Oggi. So che lavorava moltissimo e, quasi di conseguenza, fumava moltissimo (lo aveva sempre fatto). Per anni... finchè un accidente fisico non la costrinse a cambiare lo stile della propria esistenza. Vanja Ferretti ci ha lasciato. Era una persona gentile, onesta, generosa. Era –mi ripeto - una giornalista di valore. Per questo mi permetto di citare un amico comune e collega, Saverio Paffumi, che su fb l’ha definita con precisione “una persona dal cuore grande e dal cervello fine, straordinaria, infaticabile, preparatissima donna di macchina, oltre che brava scrivente, capace di eccellere in un ruolo di direzione e coordinamento che era soprattutto a quei tempi (ma ancora rimane) prevalentemente maschile”. Vorrei citare anche Marina Cosi che, riferendo dell’impegno di Vanja nel neonato Coordinamento Donne Giornaliste, agli “albori del movimento delle giornaliste”, ha scritto dell’incontro con Vanja con sensibilità e vivezza: “... lei venne, ma era un po' un pesce fuor d'acqua, facemmo amicizia, ma il femminismo le era poco comprensibile”. Vanja era una militante del Pci e le questioni di genere non erano certo al primo posto nella cultura del partito (o di tutto il partito o di una certa generazione) e non sicuramente alla maniera in cui le poteva intendere il movimento femminista del dopo Sessantotto. Proprio lunedì scorso l’ho vista per l’ultima volta, sofferente, immobile nel suo letto. Cercavo di comunicare con lei, ma le parole mi sembravano vuote, assurde. Alla fine le ricordai il suo gatto, bellissimo e terribile. Aggrediva chiunque si presentasse in casa. Le ricordai il nome: Ulisse. Mi parve di scorgere la sua bocca piegarsi in un lieve sorriso. Un attimo, ma sufficiente per ritrovare sul suo volto la dolcezza degli anni giovanili, quando la conobbi all’Unità di viale Fulvio Testi. Così la ricorderemo, con il sorriso che accoglieva chiunque di noi l’avvicinasse.