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Addio Ibio, "uomo nuovo" e straordinario collega
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di Oreste Pivetta Ibio Paolucci è morto nelle prime ore del mattino del primo di luglio, sabato. Alcuni avranno letto la notizia apparsa qui e là nei social e in qualche giornale, non il suo, l’Unità, il giornale di una vita, silenziosamente soppresso tra varie complicità. Ibio aveva novantuno anni, due settimane prima lo aveva lasciato la moglie, Gabriella, compagna per un’esistenza intera. Si erano conosciuti giovanissimi, a Genova, quando lei liceale aveva deciso di seguire un corso di lingua russa che Ibio, responsabile della sezione ligure di Italia – Urss, aveva organizzato. “Una grande donna, un grande amore”, mi aveva confidato tante volte e ancora poche ore prima di lasciarci. Lo ricordo perché mi sembra bello e non è fortuna di tanti poter ripetere parole simili fino all’ultimo. Ero stato con Ibio nel pomeriggio di giovedì. Come al solito avevamo chiacchierato a lungo, naturalmente di politica e poi dei libri che gli avevo portato nei giorni precedenti. Avevo parlato anche con la dottoressa che lo aveva in cura. Era stata rassicurante: non più tardi di lunedì lo dimetteremo. Venerdì pomeriggio l’avevo sentito al telefono: era persino allegro, il tono era robusto. Da quasi due anni, dall’insorgere della malattia della moglie, ci sentivamo quasi tutti i giorni. Mi chiamava e semplicemente mi diceva: “Avevo voglia di sentire una voce amica”. Poi l’appuntamento per il giorno dopo. Ci si vedeva sotto casa, vicino alla Stazione Centrale. Si faceva avanti traballante, si affidava al mio braccio. Magari lo rimproveravo perché s’era allacciato male la camicia o perché sul giaccone era comparsa qualche macchia. Si camminava fino al bar del carissimo Vanni, in via Antonio da Recanate, proprio sotto l’ultima sede dell’Unità milanese, lui con il cappuccino e la brioche, io con il caffè e la brioche. Lunghe conversazioni. La riforma costituzionale, la legge elettorale (un parlamento di nominati), il futuro di Renzi (pensava che non sarebbe mai tornato al governo), le alleanze. Questa era l’attualità, che liquidava con rapide battute, quasi ritraendosi sdegnato di fronte al degrado della politica, all’irresponsabilità dei leader, ai loro conflitti di interesse, alla loro mediocre cultura. Lo interrogavo a proposito del passato, quello che più mi incuriosiva, da Piazza Fontana al terrorismo,dal processo di Catanzaro alle vittime delle Brigate rosse (una in particolare, il giudice Emilio Alessandrini, di cui era amico e la cui memoria ha sempre conservato). In questi casi il racconto scorreva lungo e minuzioso. Non un particolare sfuggiva, non un nome veniva meno, tutto veniva ricostruito con lucidità e precisione. Come la pensasse lo abbiamo letto nei suoi articoli. Non starò io qui a riferire il suo giudizio, che era – sintetizzo – di assoluta e rigorosa condanna di quanti, armati, infrangevano le leggi della democrazia e frustravano qualsiasi cammino di liberazione ed emancipazione della società italiana. Perdonate la semplificazione... Aggiungo solo che per questo entrò in polemica con alcuni della direzione dell’Unità. Ovviamente non si piegò. A proposito di certo giornalismo scoopista d’oggi, carte giudiziarie scovate in qualche cassetto amico, mi diceva sempre che di scoop avrebbe potuti farne tanti, ma che non gli interessava: condivideva le notizie, quando erano notizie, con i colleghi, cercava di avvicinarsi alla verità. Dopo la politica, si discuteva di libri. I “suoi” libri, come per quelli della sua generazione, erano i grandi russi o i grandi romanzi francesi o Dickens. Talvolta gli proponevo qualche novità italiana, ma per lo più poi me ne pentivo: confronti improponibili per chi era cresciuto con Dostojeski, Gogol, Checov, Tolstoi, Balzac. In ultimo era tornato a Victor Hugo. Leggeva libri d’arte, Longhi in primo luogo. Mi cercava qualcosa di Cavalcaselle, ma non riuscii mai ad accontentarlo, neppure attraverso la Sormani. Leggeva libri di storia. Aveva appena chiuso il saggio di uno storico anglosassone sul ritorno in treno di Lenin a Pietrogrado. Gli piaceva riferire delle sue letture a proposito della rivoluzione russa o della seconda guerra mondiale. Mi elencava nomi di generali russi. Di uno mi citò un episodio: s’era a Leningrado assediata dai nazisti, l’Armata rossa si preparava a sferrare un grande attacco, tutto era pronto, sarebbe bastato un segnale, il generale fermò i suoi impazienti aiutanti: “Riflettiamo ancora un minuto”. Era un po’ il modo di pensare di Ibio, pacato, calmo, mai intempestivo. Tanta cultura. Dovrei dire ancora di teatro, di cinema, di musica, passioni di decenni e decenni di un autentico autodidatta. Paolucci erano nato nel 1926 in una modesta famiglia di Buriano, paesino in provincia di Grosseto. Con i suoi era migrato a Genova. Aveva studiato appena il necessario per diventare operaio, fino alla seconda avviamento. Era “scalda chiodi”, come il titolo di un suo libro (“Storia di uno scalda chiodi”, Edizioni Arterigere), nei cantieri navali Ansaldo, a quattordici anni: i chiodi roventi che tenevano unite le lamiere, ribattuti dagli operai esperti. Incappò in una retata, dopo gli scioperi operai del ’43, e venne deportato in un campo di lavoro forzato in Polonia. Tornò in Italia nel 1945, comunista assai dubbioso. Tuttavia si lasciò convincere e si iscrisse al Pci. Il Pci fu la sua seconda scuola. Ibio Paolucci è un esempio anche di questo, di quanto il partito comunista si preoccupasse della “formazione” (qualcuno potrebbe dire dell’indottrinamento) dei suoi militanti, dei suoi futuri quadri: in ogni sezione comunista era d’obbligo una biblioteca per gli iscritti (la storia della casa editrice Einaudi si intrecciava in quegli anni con quella del Pci, come testimonia il bellissimo “Pensare i libri” di Luisa Mangoni, Bollati Boringhieri). Paolucci cominciò da organizzatore a occuparsi di cultura, di Italia-Urss, conobbe attori, registi, musicisti, artisti, intellettuali di fama. Poi ad una possibile carriera politica preferì il giornalismo, quando gli venne proposta l’Unità, prima a Genova, poi a Milano, dopo un periodo a Varsavia. A Milano cominciò a occuparsi di giudiziaria, credo controvoglia all’inizio. Divenne uno dei più rigorosi, informati, esperti cronisti, quando da piazza Fontana in poi cronaca giudiziaria significava occuparsi di terrorismo rosso e nero, di stragi, di processi, subendo minacce (a un certo punto il partito gli garantì una scorta), qualche volta interferenze, tentativi di censura... fuoco amico si direbbe... ma forse esagero. In pensione continuò a collaborare con il giornale, scrivendo d’arte. Di terrorismo e di processi chiacchierava con me, quando mi incaricavano di “celebrare” qualche anniversario e lo interrogavo in cerca di conferme. Trovò un secondo giornale nel “Triangolo rosso”, la rivista degli ex deportati. Visse con amarezza la lenta agonia del suo partito e quella del suo giornale. Con la lucidità di chi sa che il passato non torna, ma anche con avversione nei confronti di chi tentava di negare la ricchezza di quel passato. Dovrei dire ancora dei suoi libri, che scrisse per lo più in tarda età: “Un eroe dimenticato. Calogero Marrone capo dell’Ufficio anagrafe del comune di Varese assassinato a Dachau” (con Franco Giannantoni), “Giovanni Pesce, Visone. Un comunista che ha fatto l’Italia” (ancora con Giannantoni), “Un luogo una storia”, “Grandi pittori nei piccoli centri”. Del diario di David Rubinovich, il ragazzino ebreo polacco morto a Treblinka, le cui memorie vennero ritrovate nel dopoguerra, fu il traduttore per Einaudi insieme con Franco Lucentini. Dovrei ricordare ancora “Il processo infame”, la più bella ricostruzione della vicenda di piazza Fontana, pubblicato da Feltrinelli nel 1976, inspiegabilmente mai ristampato, introvabile.