di Oreste Pivetta
L'Ordine dei giornalisti deve la sua esistenza alla legge 69 del 1963, primo firmatario il parlamentare democristiano Guido Gonella, bella nei suoi principi generali (nel solco della Costituzione), inevitabilmente inadeguata ai tempi nostri: per la rivoluzione tecnologica, per la moltiplicazione degli strumenti, per la nuova geografia delle proprietà, per lo stato dell'occupazione, per gli stessi profondi cambiamenti avvenuti dalla parte dei “destinatari”, dalla parte del pubblico. Non c'è stata consigliatura che non abbia inscritto nel proprio programma l'ambizioso traguardo: “riforma dell'Ordine dei giornalisti”. Non c'è stata consigliatura in cui non si sia lavorato, stendendo premesse e articolati di varia densità. Anche nell'ultima: la “commissione riforma” ha prodotto la sua “proposta di riforma”, approvata alla unanimità dal Consiglio, e non ha rinunciato a presentarla alle “autorità competenti”, in un'aula parlamentare, presenti vari deputati e il potente onorevole Mollicone... Riforma piccola piccola, modesta, che aggiungeva, qualche aggettivo alla definizione di “lavoro giornalistico” (attingendo peraltro ad alcune sentenze della Corte di Cassazione), che introduceva una laurea per i candidati giornalisti e qualche obbligo formativo e deontologico in più. Acqua passata, riforma dimenticata nell'oscuro cassetto di qualche sottosegretario...
Ovviamente, vogliamo precisare, una legge si può cambiare solo con un'altra legge. L'Ordine, ente pubblico, non ha la facoltà di autoriformarsi: può solo proporre, sperando di venir ascoltato... Dove ha potuto, ha provato a modificare qualcosa, ad esempio “tagliando” un sistema di voto obsoleto, se non tragicomico, tre turni, in presenza e online (questa la novità la cui genesi sarebbe da attribuire al covid). Ma anche di fronte ad una modifica di regolamento, che avrebbe consentito di risparmiare svariate migliaia di euro, riducendo tutto ad un turno solo di votazioni, era necessario il nullaosta ministeriale. Infatti la cosiddetta controparte governativa non ha sentito e ha lasciato correre i giorni, imponendo la storica trafila di votazione, seconda votazione, ballottaggio... I colleghi avranno sperimentato... Ma, elezioni archiviate, ecco il colpo di teatro, perché, passate poche ore, si fa vivo l'onorevole Andrea Mascaretti con il suo disegno di legge. Non che già non lo si conoscesse, ma pareva dimenticato, al pari di tanti altri disegni di legge. Ed invece rieccolo: “La commissione Cultura della Camera – ci ha informato l'Ansa – ha adottato il testo base per la riforma dell'Ordine dei giornalisti”. “Tra le diverse proposte di legge – siamo al punto chiave – che si limitavano a semplificare il sistema elettorale (semplificazione chiesta dal Consiglio nazionale dell'Ordine) la commissione ha adottato una proposta di FdI che riforma anche la composizione del Consiglio nazionale e dei Consigli regionali dell'Ordine...”. L'onorevole Mascaretti, un storia tra Forza Italia e Fratelli d'Italia, “pubblicista”, ha poi spiegato che così si apre la porta alla riforma, il cui primo passo consisterebbe appunto, secondo il parlamentare, nel cambiare qualche numero. Dopo una lunga battaglia per riportare il Consiglio nazionale a miti dimensioni (ci si riuscì grazie ad una comma della legge sull'editoria, primo firmatario Roberto Rampi del Pd), da centocinquanta e rotti membri a sessanta, Mascaretti vorrebbe “riequilibrare” le forze in campo: nel Consiglio nazionale trentasei professionisti e ventisei pubblicisti, quando il rapporto è fissato in quaranta e venti, nei consigli regionali cinque professionisti e quattro pubblicisti (sono per ora sei e tre) . Il senso dell'operazione lo lasciamo decifrare a chi legge.
Il Comitato esecutivo del Consiglio nazionale ha scritto in un comunicato di “ritorno al trapassato prossimo”: alterare l'equilibrio della rappresentanza di professionisti e pubblicisti non significa innovare, ma solo “ulteriormente favorire i tesserinifici...”. Neologismo duro, giusto per rappresentare quel mercato delle tessere che ha consentito negli anni la moltiplicazione dei pubblicisti ben oltre le prescrizioni della legge e oltre il requisito della appartenenza pur minima ad un mestiere (“Sono pubblicisti - afferma la legge – coloro che svolgono attività giornalistica non occasionale e retribuita anche se esercitano altre professioni o impieghi”). “Peraltro segnaliamo – lo ha denunciato Alessandra Costante, segretaria dell'Fnsi - come l'Ordine dei giornalisti sia l'unico a non essere governato solo da giornalisti, ma anche da insegnanti, avvocati, ferrovieri, ingegneri e altri esponenti di onorevolissime professioni, ovvero pubblicisti che per la legge 69 del 1963 sono giornalisti con un altro lavoro prevalente”. Ancora: “I problemi dell'informazione in Italia sono dati da un Ordine pletorico con oltre centomila iscritti, dei quali meno del quaranta per cento svolge davvero il lavoro del giornalista e ha una posizione previdenziale aperta. È brutto guardare a casa d'altri, si sa, ma in Francia, ad esempio, è giornalista chi vive di giornalismo. I problemi dell'informazione in Italia sono quelli di un settore sottofinanziato, con colleghi sottopagati, che proprio grazie alla pletoricità dell'Albo costituiscono un esercito di riserva per gli editori... Quello di cui si sta occupando oggi la commissione Cultura della Camera è semplicemente un gioco di potere per occupare l'Ordine dei giornalisti con chi non fa questa professione”. Non solo un “esercito di riserva”, ma anche un “parcheggio” per fruitori di modesti privilegi: il tesserino rosso di giornalista apre ancora qualche via. Per completezza dell'informazione precisiamo che il disegno di legge Mascaretti prevede l'estensione da tre a quattro anni della durata del mandato dei consiglieri degli Ordini regionali e dell'Ordine nazionale nonché dei revisori dei conti, introducendo un tetto al limite dei mandati consecutivi per i membri dei Consigli regionali e nazionale e un limite di due mandati non consecutivi per i revisori, e semplifica il sistema elettorale, prevedendo un'unica tornata, con la doppia preferenza di genere...
Tutto qui. Non fosse per quei numeri e per la volontà che esprimono, si potrebbe concludere con una immagine tipo “la montagna che partorisce il topolino”. Ma c'è di mezzo la politica: trent'anni di proposte, di confronti, di discussioni svillaneggiati in un ddl che sembra nato solo per qualche padrone delle tessere (e non facciamo nomi per evitare querele), qualche nuovo sindacato (il panorama si è arricchito negli ultimi tempi grazie alla Figec, sindacato capeggiato da Carlo Parisi, inventato contro la Fnsi, in odore di centro destra), un disegno di legge ricomparso all'improvviso, ignorando i contributi degli Ordini e dei giornalisti. Uno schiaffo.
E' banale ripetere che i problemi, da un punto di vista strettamente ordinistico, sono ben altri, a cominciare da una definizione del giornalismo e dei giornalisti oggi. La figura dei professionisti e quella dei pubblicisti non riescono a riflettere le indicazioni di una legge di sessant'anni fa. La rivoluzione tecnologica ci ha messo davanti agli occhi, quotidianamente, una infinità di nuovi canali di informazione e di comunicazioni e allo stesso tempo di nuove forme di sfruttamento di un lavoro, sempre meno “contrattualizzabile” secondo vecchi canoni, sempre meno riconosciuto, sempre più escluso dalle redazioni, sempre meno protetto, vergognosamente sottopagato. Di questo, prima di tutto, dovrebbero occuparsi il governo e la sua maggioranza, se avessero in testa la Costituzione e l'interesse pubblico: la crisi dei media e la conseguenza di una occupazione povera (con il rischio che sia sempre meno qualificata) sono una insidia per la democrazia. Invece cominciano dalla “quota” dei pubblicisti...
Stando ai compiti di un Ordine professionale, una riforma, se la si volesse fare, dovrebbe ripartire da un superamento del doppio elenco e quindi della legge del 1963, considerando giornalista chi “fa il giornalista”, valutando la varietà delle situazioni, senza penalizzare chi non ha la fortuna di un contratto, promuovendo chi accede all'esame di Stato perché può vantare un certo titolo di studio e può dimostrare già il suo lavoro, chi, dopo l'iscrizione, proseguendo nella sua attività, rispetta il codice deontologico e l'obbligo della formazione: un percorso da studiare, ma che dovrebbe porre termine all'antico conflitto tra professionisti e pubblicisti, i più penalizzati oggi (quelli naturalmente che esercitano pienamente la professione) da un mercato sconnesso e dalla caduta delle regole e quindi di ogni difesa. Vale quanto testimonia una collega: “Ho scritto per anni a quattro euro lordi a pezzo per iscrivermi all'Ordine, barcamenandomi tra più redazioni...” . “...redazioni che anziché riassumere lasciano a casa, non hanno turnover, sottopagano e fanno uscire giornali interi grazie ai collaboratori...”. Succede così. E' una voce che parla all'Ordine, al sindacato e soprattutto al governo. Risanare, rilanciare, correggere il sistema dei media, imporre uno statuto alla giungla delle retribuzioni (quando l'equo compenso?) dovrebbero rappresentare il primo pensiero del governo, che pretende invece di “riformare”, cambiando i decimali e guardandosi indietro.